Cosa ci dicono i risultati delle elezioni europee 2019

Proviamo a fare alcune considerazioni sui risultati delle elezioni europee del 26 maggio scorso.
Innanzitutto un dato inequivocabile: l’assalto (così dicevano) dei nazionalisti, sovranisti ed euroscettici di varia natura al Parlamento Europeo, per indebolire l’Unione e intaccare i principi di libertà, democrazia e solidarietà sui quali essa è fondata, è fallito. Nettamente.
I gruppi che si dichiarano nazionalisti (ECR, cui aderisce Fratelli d’Italia), sovranisti (ENF, cui aderisce la Lega), euroscettici (EFDD, cui aderisce M5s), tutti di chiara impronta illiberale, messi insieme fanno poco più del 20% dei consensi espressi dai cittadini europei.
Purtroppo al raggiungimento di quota 20% (in cifra assoluta 170 europarlamentari), di per sé poco rilevante, hanno contribuito in modo invece rilevante alcuni partiti italiani. In primo luogo la Lega, che al gruppo ENF di cui fa parte (formato da 58 parlamentari) contribuisce per il 50%.
 A ben vedere, il fatto che la Lega di Salvini sia diventato il partito più votato tra quelli che siedono nel Parlamento europeo non sembra avere risvolti politici significativi; mostra solo con più evidenza che in questo momento l’Italia costituisce una eccezione e non la regola. Aveva ragione la cancelliera tedesca Merkel nel dire: “la mia Europa saprà difendersi da Salvini “.

In questo contesto, dunque, l’eccezione Italia non dovrebbe rappresentare un serio problema per il futuro dell’Unione. Nel senso che le ben note posizioni euroscettiche di Salvini (ma anche di Di Maio) non dovrebbero incidere più di tanto rispetto alla possibilità che venga portato avanti un percorso di rafforzamento dell’Unione, dai più auspicato e indispensabile per dare ai paesi europei strumenti per operare in modo non gregario in un contesto globale dominato da colossi come la Cina e gli Usa. L’eccezione della situazione Italiana, più che per l’Europa, potrebbe rivelarsi un problema per l’Italia stessa. Intanto perché, per la prima volta dal 1945, arbitro assoluto della politica del nostro paese è un leader che si ispira a valori illiberali. In subordine: Salvini potrebbe essere tentato dall’idea di far pesare il proprio successo elettorale e decidere di realizzare a tutti i costi i punti del “contratto di governo” che più gli stanno a cuore a dispetto dei vincoli europei sul deficit. Sarebbe una decisione di orgoglio poplulista e sovranista. Ma una decisione che lo metterebbe in rotta di collisione con gli orientamenti della Commissione europea attuale e (molto probabilmente) anche di quella futura. A quel punto per il nostro paese potrebbero cominciare i guai seri.
Naturalmente ci auguriamo che uno scenario del genere non si verifichi. Ma lo si può escludere? Il governo italiano non ha finora mostrato di possedere una strategia diversa da quella che consiste nel cercare di realizzare un elenco di promesse elettorali (spesso neppure chiaramente formulate) a prescindere dal fatto che siano compatibili o meno con le risorse effettivamente disponibili (e in più slegate da un vero programma politico).
Mentre scriviamo queste note i telegiornali annunciano che la Commissione Europea ha inviato al governo italiano una lettera di richiamo al rispetto dei vincoli sottoscritti dal nostro paese e al rispetto dell’impegno a ridurre il nostro enorme debito pubblico. Purtroppo si comincia a delineare lo scenario temuto.

Va comunque rilevato un primo risvolto concreto e immediato di questa sostanziale irrilevanza della presenza sovranista consegnataci dai risultati del voto europeo. Fino a pochi giorni prima del voto, quando a Lega e 5 stelle si faceva notare che le loro pazzesche manovre economiche (fatte per tener fede ad altrettanto pazzesche promesse elettorali, comunque prive di un piano vero, di una idea vera di come sviluppare il paese) sarebbero state bocciate dalla Commissione europea, rispondevano che presto le cose in Europa sarebbero cambiate: loro, insieme ai loro alleati sovranisti, sarebbero andati al governo dell’UE e avrebbero cambiato le regole che impediscono o p⁥rlomeno tengono a freno la tentazione di fare manovre economiche in deficit. Ora questa sciocchezza non potranno più raccontarla.

Ma una riflessione sul voto del 26 maggio non può trascurare il fatto che questo appuntamento elettorale è stato caricato di significato politico interno, cioè è stato considerato da tutti come l’occasione per una prima verifica dell’operato del governo gialloverde a un anno dal suo insediamento e per una valutazione della situazione politica generale del paese. Anche perché al voto europeo è stato abbinato il voto per il rinnovo di molte amministrazioni locali.
Naturalmente, qui non potremo che limitarci a poche ed essenziali considerazioni.

In un post di 3 mesi fa, commentando i risultati delle elezioni regionali in Sardegna (i quali per altro registravano un andamento simile a quello verificatosi in altre precedenti elezioni locali) abbiamo detto che il “M5s è un partito in via di estinzione”. E non solo perché era quanto già allora suggerivano i numeri (mai era successo in Italia che un partito perdesse i due terzi del proprio elettorato nel giro di pochissimi mesi) ma anche perché, a nostro avviso, dietro la retorica del “governo del cambiamento” non c’era nulla: non c’era una presenza diffusa nei territori, non c’era una classe dirigente, non c’era un programma né una idea di paese. Nulla che non fosse una abile strategia comunicativa basata sulla manipolazione dei dati di realtà al fine di creare nei cittadini la “percezione” che le cose andavano molto peggio di come effettivamente andavano.
Questa abilità comunicativa, che presentava il M5s come il portavoce della rabbia dei cittadini, insieme alla circostanza che il PD (principale partito della coalizione al governo) era scosso da una profonda crisi interna, aveva consentito al M5s di acquisire enormi consensi presso l’elettorato di quel partito (promettendo di tutto e di più).

I risultati delle elezioni europee e delle elezioni amministrative del 29 maggio confermano, ci sembra, che la deludente prova di governo del M5s ha dato il via, anzitempo, alla sua parabola discendente. Siamo di fronte al classico epilogo di ogni politica populistica: non riuscendo a realizzare le promesse fatte fallisce e perde consensi con la stessa rapidità con la quale li aveva guadagnati.

Il partito di Salvini, invece, non ha ancora imboccato la sua parabola discendente, anzi continua ad attirare consensi e lo fa, dicono gli analisti dei flussi, incamerando una parte dei voti che perde l’alleato di governo. La Lega riesce a farsi percepire come più affidabile; in parte perché ha alle spalle una lunga tradizione di governo e di amministrazione della cosa pubblica, in parte perché gli spettri che Salvini agita sono più in sintonia con le paure e le insoddisfazioni degli italiani: troppi stranieri, poca sicurezza, troppe tasse, troppa burocrazia.
Ciò naturalmente non vuol dire che per il populista Salvini non valga quanto detto per il populista Di Maio. Anche le promesse fatte da Salvini stridono con la realtà. E questo, prima o poi, metterà i due Vice alla pari, anche in termini di perdita di consensi. Prima o poi il “popolo” si renderà conto che dietro il passaggio da Lega Nord a Lega e basta non c’è un sostanziale cambiamento, nel senso che non c’è un programma buono per questo paese: per rimetterlo sui binari della crescita, da un lato e, dall’altro per restituirgli credibilità (per inciso, a proposito di cambiamento: nell’attuale statuto della Lega non più padana l’obiettivo secessione è ancora presente, tale e quale).
Certo, il processo di resipiscenza degli italiani andrebbe incoraggiato e sostenuto, ad esempio da concrete proposte di alternativa al “governo del cambiamento” da parte dell’opposizione. Ma per ora non ci sono.
E intanto, cosa succederà nel breve periodo?
A nostro avviso, anche su questo punto i risultati delle elezioni europee (e di quelle amministrative) del 26 Maggio confermano, sostanzialmente, quanto avevamo sostenuto in alcuni precedente post: in particolare, uno relativo all’ esito delle elezioni regionali sarde e uno relativo alla ormai tanto dibattuta questione dell’assenza nel panorama politico del nostro paese di una formazione di centro (sollevata con forza da Paolo Mieli nel corso di una conversazione/intervista con l’ex premier Matteo Renzi e ripresa da vari commentatori tra cui Angelo Panebianco sul Corriere Della Sera).
 In estrema sintesi:
– bisogna credere a Salvini e Di Maio quando dicono che la loro intenzione è di mantenere in piedi questo governo per tutta la durata della legislatura. Non hanno interesse/convenienza a fare diversamente.
– Lega e M5s non sono due formazioni politiche “ideologicamente contrapposte”. La competizione esiste (perché pescano nello stesso elettorato) ma non sono formazioni  tra loro distanti e spesso sono complementari.

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