A proposito di Rdc

In riferimento al  nostro articolo “In mezzo al guado” abbiamo ricevuta da una lettrice un commento che critica la nostra posizione relativamente al Reddito di cittadinanza e al Jobs Act. Giustamente, perché in quel testo la nostra posizione non era sufficientemente motivata. Provvediamo a farlo. In questo articolo limitatamente al Rdc.

Prima di entrare nel merito delle questioni, precisiamo che a nostro parere, il giudizio su una azione politica deve tener conto, in primo luogo, degli obiettivi che quella azione si è posta e  dei risultati che ha raggiunto.

Per quanto riguarda il cosiddetto “Reddito di cittadinanza” (Rdc), bandiera dei Cinquestelle ma fortemente appoggiato anche dalla sinistra massimalista (fuori e dentro il Pd), è stato presentato come una misura che si poneva l’obiettivo di “abolire la povertà” e, insieme, dare lavoro (era questa la novità tanto sbandierata dal ministro Di Maio ). Come? L’idea era quella di assicurare un reddito sia pure modesto agli appartenenti alle fasce più deboli della popolazione (la proposta di legge recitava: “garantire un livello minimo di sussistenza”) sulla base di determinati requisiti e nel contempo avviarli ad una attività lavorativa (“promozione delle condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro e alla formazione”). Il sostegno economico – viene precisato sul sito del Ministero del Lavoro – è “associato ad un percorso di reinserimento lavorativo e sociale sottoscrivendo un Patto per il lavoro o un Patto per l’inclusione sociale”.

Con quali risultati? Certamente il Rdc ha dato un importante aiuto economico a molte persone in difficoltà (non certo a “tutti” i poveri).
Per quanto riguarda l’avviamento al lavoro, si sa che ha interessato un numero molto ridotto di persone: la contemporaneità tra Rdc e lavoro non ha mai superato la quota del 20% dei percettori. Il collegamento tra reddito e avviamento al lavoro di fatto non c’è stato. Nelle intenzioni dei promotori, il Rdc sarebbe stato accompagnato da una riforma dei Centri per l’impiego. Tale riforma non è stata fatta. Ed è nota la vicenda della “fondamentale” figura dei navigator (nati per traghettare i percettori di reddito verso un lavoro. Avrebbero dovuto essere almeno 10 mila e ne sono stati assunti circa 3 mila, con contratti  a termine, la maggior parte già scaduti e non più rinnovati).

Per quanto riguarda, invece, i percorsi di inclusione sociale non è dato sapere quasi nulla, pur essendo in teoria la parte più innovativa e interessante dell’intera iniziativa perché, come recitano le Linee guida per la definizione dei patti per l’inclusione sociale “si tratta di uno strumento rivolto al futuro, costruito col più ampio e diretto coinvolgimento dei beneficiari al fine di assicurare la loro responsabilizzazione rispetto ai suoi contenuti e la loro crescita (empowerment) nonché di evitare le derive dell’assistenzialismo e dell’opportunismo. Il progetto è legato all’erogazione del RdC, ma, allo stesso tempo, la supera: esso si può infatti riferire ad altre dimensioni di vita della persona emerse come prioritarie in sede di valutazione, oltre a quella economica, ed estendersi temporalmente oltre la durata dell’erogazione del beneficio economico”. Bello, ma nessuno sa che fine ha fatto.

Alcuni dati significativi: secondo l’Istat, in Italia, le famiglie in condizioni di povertà relativa (giugno 2022) sono circa 2,9 milioni (l’11,1%) per un totale di quasi 8,8 milioni di individui (14,8%). Le famiglie in condizioni di povertà assoluta, secondo stime riferite al 2021, sono poco più di 1,9 milioni (con un’incidenza pari al 7,5%), per un totale di circa 5,6 milioni di individui (9,4%).

A luglio di quest’anno i disoccupati tra la popolazione attiva erano circa 2 milioni, con un tasso complessivo del 7,9%, il più alto in Europa.
I percettori di Rdc, secondo i dati Inps riferiti a luglio 2022, sono 1,05 milioni di famiglie italiane, con 2,49 milioni di persone coinvolte.
Secondo dati Anpal, a giugno del 2021 i percettori di Rdc tenuti a sottoscrivere un patto per il lavoro sono stati 1.150.152. Di questi il 40% aveva meno di 29 anni. Solo 392.292 hanno sottoscritto un patto per il lavoro, ma le persone che poi lo hanno trovato sono state meno del 20%.  Non è dato sapere se hanno trovato un impiego tramite un’offerta di lavoro che è stata proposta dal Centro per l’impiego (stime precise non  ve ne sono, né a livello nazionale né a livello regionale). Leggiamo sul Sole 24 Ore dell’11 luglio scorso che ”Ci sono analisi, come quelle dell’Inapp, che fanno riferimento alla generalità degli utenti evidenziando come gran parte delle persone trova lavoro grazie ai canali informali – amicizie, parentele – e che i Centri per l’impiego trattano prevalentemente una utenza debole – il 32% ha le medie inferiori – e riescono a condurre al lavoro poco piu del 4% della loro utenza”). Nel 2021 tra le persone che hanno beneficiato del Rdc per almeno 11 mensilità oltre l’80% è risultato non avere avuto alcuna posizione lavorativa. Quanto ai lavori che vengono trovati, generalmente (stando a vari studi condotti sul tema) si tratta di lavori precari (quasi solo lavori a tempo determinato) di bassa qualifica e bassa remunerazione.

Quando diciamo che il Rdc si è rivelato una misura puramente assistenziale ci si riferisce proprio a questi dati, al fatto che tutto ciò che avrebbe potuto non renderla tale è mancato. L’elargizione del reddito non è stata accompagnata da adeguati interventi per il reinserimento lavorativo e più in generale per lo sviluppo dell’occupazione (e per l’inclusione sociale?).

Comprendiamo che si possa avere simpatia per il Rdc, ovvero per una norma che ha dato un importante sostegno economico a molte famiglie in difficoltà (lasciamo volutamente perdere la storia dei tanti  “furbetti” che hanno usufruito del reddito pur non avendone diritto). Ma coerentemente con la premessa fatta all’inizio, stando ai dati di cui disponiamo, non possiamo non prendere atto che ha fallito gli obiettivi, è stata una misura poco efficace, forse studiata male, pur disponendo di consistenti risorse economiche (nei primi tre anni  è costata più di 23 miliardi).

Un esempio concreto di questo fallimento degli obiettivi lo traiamo da quanto riportato dal giornalista Lorenzo Borga in una analisi del Rdc apparsa su Il Foglio del 30 Maggio scorso:
“È ancora l’Anpal a pubblicare un numero che non lascia spazio a dubbi: del milione di beneficiari chiamati a trovare un lavoro, meno della metà – in tre anni dall’introduzione – è stato ‘preso in carico’ (un’espressione tecnica che significa aver avviato il percorso di accompagnamento al lavoro, con la sottoscrizione del patto per il lavoro e gli incontri di orientamento e di ricerca di un nuovo impiego). Ciò significa che centinaia di migliaia di persone non si sono mai presentate ai centri per l’impiego, né sono state contattate”.

Ma c’è di più. Andando più a fondo nell’analisi, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un meccanismo studiato per non funzionare. Il Rdc proposto come uno strumento per portare ad una migliore condizione lavorativa e sociale, in molti casi si trasforma in un disincentivo a cercare un impiego: un giovane del Sud (nel meridione vive il 70% dei percettori del Rdc) sotto i 29 anni che riceve il Rdc (un singolo può ricevere fino a 780 euro mensili, più altri possibili sussidi), anche se rientra tra coloro che potrebbero lavorare, non viene motivato a uscire dalla povertà, non viene realmente aiutato a cercare un impiego. Se quel giovane riceve una offerta di lavoro, per poterla accettare deve rinunciare al Rdc. L’accetterà solo se la nuova offerta gli consente di guadagnare un bel po’ di più di quanto guadagna tramite il Rdc (ma, come sappiamo, i lavori che vengono trovati, generalmente sono lavori precari di bassa qualifica e bassa remunerazione).

Alcuni dicono che queste critiche sono eccessive se non addirittura preconcette: in fondo una misura simile è in vigore in tanti altri Paesi avanzati.

Bene. Prendiamo il caso della Germania. Come racconta Daniel Mosseri su Il Foglio del 20 Settembre, in Germania c’è un sussidio tipo il nostro reddito di cittadinanza già da vent’anni (sembra, tra l’altro, sia stato il modello cui si sono ispirati i Cinquestelle). Si chiama Hartz-IV ed è odiato dai tedeschi perché lega a troppi obblighi burocratici ed è visto come “uno strumento per galleggiare sopra la linea della povertà senza però uscire dal precariato”. Il governo del cancelliere Olaf Scholz ha deciso di cambiarlo (anche nel nome) con l’idea di rendere lo stato meno patrigno, assumendo come parole d’ordine “più change, più rispetto, più coerenza”. Il nuovo reddito prenderà l’avvio il 1° gennaio prossimo. Il ministro delle Finanze Heil ha annunciato “miglioramenti significativi nella copertura dei bisogni di base delle indennità di reddito, delle opportunità di formazione continua, del processo di integrazione e dei criteri di ammissibilità”. Insomma sburocratizzare le pratiche e concentrarsi sulla ricerca del lavoro. Perché, come ha spiegato Heil, “si tratta di aiutare l’individuo a trovare un lavoro attraverso la qualificazione, la formazione continua e il supporto mirato”. (Per la cronaca, dal punto di vista finanziario, il nuovo sussidio sarà di 502 euro al mese, accompagnato naturalmente da altre opportune indennità a seconda dei casi).

Perché questo in Italia non si può fare? Perché una misura che si è rivelata poco funzionale non può essere cambiata? Perché, come va dicendo da mesi il leader dei Cinquestelle, il Rdc “non si tocca”?

Che nel funzionamento del Rdc ci fossero dei limiti (noi qui abbiamo accennato solo ad alcuni) era evidente e noto da tempo. È stato persino istituito, un anno fa,  presso il Ministero del Lavoro, un  Comitato Scientifico per la valutazione del Reddito di Cittadinanza, presieduto dalla professoressa Chiara Saraceno, che ha individuato delle criticità di fondo (come  “L’aver iniziato l’erogazione monetaria senza aver prima provveduto a mettere in grado i servizi – centri per l’impiego, servizi sociali territoriali – di far fronte ai nuovi compiti loro assegnati”) ed ha suggerito delle modifiche, anche nella direzione di una sburocratizzazione delle procedure. Ma poi tutto è rimasto lettera morta.

Quando diciamo che il RdC è una misura populista ci riferiamo a questo modo di gestire l’intervento. Un modo di fare che suscita la sensazione che l’interesse principale non sia risolvere i problemi ma agitarli, al mero scopo di acquisire consenso.
Non è populistico aiutare i poveri è populistico salire su un balcone e annunciare al mondo “abbiamo sconfitto la povertà”.

L’immagine in evidenza è tratta da: fiopsd.org

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