Dopo il viaggio di Papa Francesco in Asia e Oceania
Fede come obbedienza cieca e fede come responsabilità individuale

All’udienza generale di mercoledì 18 settembre, Papa Francesco ha proposto un riassunto degli aspetti più significativi del suo viaggio in Indonesia, Papua Nuova Guinea, Timor Orientale e Singapore. Il concetto centrale è stato, a nostro parere:
 “…sono Chiese che non fanno proselitismo, ma che crescono per “attrazione” … In quel contesto, ho avuto conferma di come la compassione sia la strada su cui i cristiani possono e devono camminare per testimoniare Cristo Salvatore e nello stesso tempo incontrare le grandi tradizioni religiose e culturali”.

Francesco giustamente individua nell’amore-compassione il tratto distintivo del cristiano, elemento che sta prima ed è superiore alla dottrina, ai dogmi e ai riti e che consente, come una calamita, di esercitare un‘adesione spontanea ed immediata da parte di chi ne viene coinvolto.

Aggiungiamo che tuttavia è necessario far subentrare immediatamente, nei confronti di questa religiosità istintiva delle grandi masse, un’opera di purificazione dai detriti di superstizione e di pregiudizi -di cui sono impregnate le culture di ogni popolo, anche in Occidente, in tema di spiritualità- e promuovere contemporaneamente la crescita della coscienza individuale rispetto alle nuove responsabilità che la vita religiosa comporta: infatti l’attenzione al prossimo, affinché non diventi paternalismo, ingerenza o sopruso, richiede profonda consapevolezza.  

La religione popolare è fragilissima per cui il confine con una religiosità caratterizzata da delega passiva, deresponsabile, ancorata ad una visione patriarcale e maschilista dei rapporti umani è estremamente sottile. Bastino gli esempi dei santi invocati per soddisfare il proprio interesse, ma non per essere imitati, dei pellegrinaggi ai santuari alla ricerca della protezione contro il male personale o collettivo come guerre ed epidemie, dell’incomprensione che la preghiera ha come scopo non la richiesta di favori ma il conformare la propria volontà a quella di Dio.  Per non parlare dei casi diffusi di chi riesce a conciliare l’adesione – proclamata, beninteso, a parole – al cristianesimo con la consultazione di maghi e cartomanti, con posizioni politiche xenofobe o addirittura con l’affiliazione a qualche cosca criminale.

La fede (cristiana, islamica, ebraica, ecc) se non si interroga continuamente sulla sua adesione reale al Dio/Amore di cui vuol essere imitazione, è capace delle peggiori nefandezze, scambiando gli impulsi irrazionali dell’animale Uomo con la Volontà divina (Abramo, il grande patriarca ebraico, e il suo tentativo di uccidere il figlio ne è l’esempio più eclatante). Anche i martiri dell’Islam che abbattono le Torri Gemelle sono sulla stessa strada, quella di usare per i propri personali ed egoistici scopi ogni violenza, perché legittima in quanto garantita dal proprio Dio.

Questo è il motivo per cui il cardinal Martini ricordava in maniera lapidaria La differenza non passa tra chi è religioso e chi è ateo, ma tra chi pensa e chi non pensa. Se il popolo si limita ad obbedire, come gregge mansueto, resterà incapace di opporsi al rogo di un eretico o alla lapidazione di una adultera, anzi ne sarà protagonista, soddisfatto nell’aver compiuto il proprio dovere. Se il credente non s’impegna a far crescere la propria fede e questa resta allo stadio infantile, egli assomiglia al bambino a cui sia dato in mano una pistola carica; nella migliore tradizione cristiana, già i Padri avevano individuato una fede “negligente”, di chi si limita ad una adesione emotiva, di pancia, ed una fede “diligente”, di chi, riconoscendo l’imperfezione inevitabile della propria fede, prosegue nella ricerca e nella interrogazione interiore.

Siamo giunti a queste riflessioni dopo la lettura di “Cristo si è fermato a Timor est” di Matzuzzi del quotidiano  “Il Foglio”. In questo articolo, perseguendo la peggiore tradizione del passato, vengono esaltate, come fanno i populisti politici, le moltitudini dei semplici e di coloro che sono “giustamente” ignoranti dei sofisticati “arzigogoli” del credente europeo, il quale ha oramai perso di vista, nella sua società opulenta e corrotta, i profondi valori di cui sono invece testimoni i poveri del Terzo Mondo (tesi già sostenuta dal cardinal Sarah). “Si è proprio certi che ai popoli della Mongolia, di Singapore e del Bangui interessino le elucubrazioni sul diaconato femminile, sul celibato sacerdotale, sulle attese del Cammino Sinodale tedesco?” è il messaggio centrale dell’articolo.

La risposta è ovvia, non sono interessati, ed è una risposta ovvia anche per noi, così come non sono interessate le masse africane e sudamericane, tutte impegnate semmai a mantenere in piedi rapporti famigliari ed interpersonali obsoleti ed anacronistici, in cui non incide affatto la parola del Vangelo. Questa arretratezza spirituale e culturale è un titolo di merito per il giornalista del Foglio, mentre per noi una fede adulta – necessaria per coloro che vogliano essere “pensanti”- verrà raggiunta da questi popoli quando ogni persona si porrà il problema della parità dei generi nell’esercizio del sacerdozio, della possibilità di consacrarsi a Dio anche se sposati e quando i temi della partecipazione, dell’ecumenismo e dell’interpretazione dinamica della tradizione della Chiesa (argomenti affrontati dal Sinodo tedesco) saranno fatti propri da ciascun credente, che voglia anche essere “praticante” davvero del Vangelo, a qualsiasi continente o gruppo sociale appartenga.

Le immagini presenti nel testo sono tratte da Wikimedia (creative commons)

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.