Alle radici del conflitto (breve excursus storico) / 4
La svolta del ‘67
Conseguenze della guerra del 1948
Come abbiamo visto, durante la guerra arabo-israeliana del 1948 circa 700.000 palestinesi avevano abbandonato le proprie case e cercato rifugio negli Stati arabi limitrofi (Libano, Siria, Giordania, Egitto) dove hanno vissuto (e i discendenti ancora vivono) in campi profughi, costituiti per lo più da tendopoli situate ai margini delle grandi città, vedendosi negato ogni diritto al ritorno nelle proprie terre (espropriate e dichiarate proprietà dello Stato) e nelle proprie case (che spesso non c’erano più). Alla fine del 1949 l’ONU creò l’UNRWA, una agenzia apposita per fornire assistenza e occupazione ai rifugiati palestinesi.
Nello stesso periodo centinaia di migliaia di ebrei lasciavano gli Stati arabi nei quali vivevano per sfuggire alle persecuzioni di cui erano oggetto (dal 1948 fino agli inizi del 1970, secondo statistiche ufficiali arabe, 856.000 ebrei hanno lasciato le loro case nei Paesi arabi. Circa 600.000 si sono recati in Israele. Fu proprio il conflitto in Palestina, in molti casi, a provocare l’espulsione e l’esproprio dei beni. Lo JJAC (un gruppo di avvocati ebrei) ha accusato i membri della Lega Araba di aver praticato una politica tesa a espellere gli ebrei o forzarne l’emigrazione (secondo quanto riportato dall’enciclopedia online Wikipedia), l’Organizzazione mondiale degli ebrei dei Paesi arabi stima che le proprietà ebraiche nei Paesi arabi sarebbero valutate oggi a più di 300 miliardi di dollari e le proprietà immobiliari lasciate nelle terre arabe equivarrebbero a 100.000 chilometri quadrati: quattro volte la dimensione dello Stato di Israele).
Per i molti ebrei giunti in Israele si avviò un percorso che li avrebbe portati ad integrarsi nella comunità israeliana. La stessa cosa, l’integrazione, non avvenne per gli arabi della Palestina giunti nei Paesi limitrofi, principalmente perché questi ultimi non erano economicamente in grado di accogliere un flusso così massiccio di immigrati. E le condizioni di un “diritto al ritorno” per le centinaia di migliaia di palestinesi che si trovavano nei campi profughi sono diventate il centro del conflitto arabo-israeliano, che da allora in poi diverrà sempre più un conflitto israelo-palestinese.
Alla guerra dei Paesi arabi contro lo stato di Israele del 1948, terminata, come abbiamo visto, con la vittoria di quest’ultimo, fecero seguito nel 1949 gli accordi di Rodi, ovvero gli armistizi firmati separatamente da Israele con Egitto, Siria, Libano e Transgiordania nel 1949: mantenimento del controllo sulla Striscia di Gaza da parte dell’Egitto; mantenimento del controllo sulla Cisgiordania da parte della Transgiordania, cui andò anche il controllo di Gerusalemme est; ritiro delle forze siriane da alcuni territori; ritiro delle forze irachene, che lasciarono le loro posizioni in Cisgiordania alla Transgiordania.
In sostanza, alla fine lo Stato di Israele si estenderà sul 78% del territorio della Palestina mandataria. Questo gli arabi non potevano accettarlo, perché per loro Israele non doveva esistere. Pertanto, nonostante gli accordi, la tensione tra Stati arabi e Israele restava molto alta (e sfocerà nella guerra del ’53 prima e poi nella crisi di Suez nel 56).
Tenere viva la tensione era un’arte che il Muftì Amin al-Husayni conosceva molto bene e organizzava (ma non era il solo a farlo) alcuni fedayn violenti (ovvero “devoti” combattenti dell’islam militante disposti al sacrificio) sovvenzionati da vari Stati arabi per compiere atti di sabotaggio, attentati e spionaggio, ai quali le forze di difesa israeliane (IDF)rispondevano con altrettanta determinazione. Erano soprattutto fedayn egiziani che lanciavano incursioni in territorio israeliano ai quali Israele rispondeva con raid di rappresaglia in territorio egiziano. Un episodio ben noto fu il cosiddetto “raid di Gaza” del 28 febbraio 1955, durante il quale le IDF uccisero quaranta soldati egiziani.
Nasser e la crisi di Suez
L’aumento delle tensioni, soprattutto tra Israele ed Egitto, era anche conseguenza della politica condotta dal nuovo leader egiziano Gamal ‘Abd al-Naser salito al potere nel 1953 a seguito di un colpo di stato. Israele vedeva Nasser come una minaccia a causa del suo sostegno ai gruppi militanti palestinesi. Sul piano internazionale Nasser abbandonò la politica di collaborazione con il Regno Unito e con gli altri paesi europei e abbracciò una politica decisamene nazionalista. Inoltre, fin da subito mostrò simpatia per l’Unione Sovietica ed il blocco dei paesi comunisti.
L’atto più clamoroso di questo cambiamento fu l’annuncio, nel luglio 1956, della nazionalizzazione della Compagnia che gestiva il Canale di Suez (della quale gli inglesi avevano una quota pari al 44%). Questa decisione fu presa in seguito al ritiro del supporto economico di inglesi e americani per la costruzione della diga di Assuan.
Nei mesi che seguirono l’annuncio egiziano si svolsero incontri segreti tra Regno Unito Francia e Israele per definire la strategia della risposta alla decisione di Nasser. Temendo per i propri interessi economici e strategici, Regno Unito Francia e Israele decisero di intervenire militarmente per riprendere il controllo del canale e rovesciare Nasser.
Nel corso di quegli incontri fu deciso che il compito di Israele sarebbe stato quello di invadere l’Egitto dal Sinai, inglesi e francesi sarebbero intervenuti successivamente costringendo gli egiziani a lasciare libere le sponde del Canale. Il 29 novembre 1956 Israele invase la striscia di Gaza e il Sinai dando inizio alle ostilità.
Sul piano militare l’operazione per l’occupazione del Canale andò bene. Sul piano politico, invece, fu un vero disastro. Anche se all’inizio gli Stati Uniti avevano lasciato mano libera ai propri alleati, ora temevano per un pericoloso possibile allargamento del conflitto a livello internazionale perché l’Unione Sovietica, che si era schierata a fianco dell’Egitto, minacciava di intervenire a sostegno di Nasser “con tutti i tipi di moderne armi di distruzione” su Londra e Parigi.
Pertanto gli Stati Uniti costrinsero Francia e Regno Unito a cessare il fuoco e a ritirarsi. All’ONU, su suggerimento del ministro degli esteri canadese Lester Pearson fu creata una “Forza di emergenza delle Nazioni Unite (UNEF) ” per mantenere i confini in pace mentre si cercava un accordo politico (tale suggerimento valse al ministro canadese il premio Nobel per la pace).
Il Canale rimase sotto il controllo egiziano e alla fine la leadership di Nasser nel Mondo arabo risultò rafforzata, ciò aiutò il leader egiziano a diffondere il panarabismo (la politica volta alla unificazione del mondo arabo). Inoltre il governo egiziano, come reazione alla guerra subita, espulse circa 25.000 ebrei egiziani, confiscandone i beni, e circa 1.000 furono rinchiusi in campi di detenzione.
Chi riteneva, o sperava, che dopo la soluzione della crisi di Suez le rivalità tra Israele e i suoi vicini si fossero in qualche modo placate, sarebbe stato ben presto costretto a ricredersi.
In realtà, nonostante i vari trattati firmati, la legittimità di Israele presso i capi di stato arabi era tuttora in discussione.
Eventi che prepararono la guerra del 1967
La politica di Nasser volta a promuovere una maggiore unità economica e politica tra gli Stati arabi gli fece guadagnare un ruolo di primo piano in seno alla Lega Araba. Egli intensificò la sua propaganda anti israeliana allo scopo di costituire un ampio blocco di paesi impegnati nell’azione contro lo Stato di Israele. Inoltre favorì la creazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (maggio 1964) il cui obiettivo dichiarato era liberare la Palestina (ovvero tutto il territorio compreso nei confini che esistevano al momento del mandato britannico) “attraverso la lotta armata”.
Attività di guerriglia e attacchi da parte di gruppi palestinesi, supportati da paesi arabi quali la Siria e l’Egitto, alimentavano la tensione lungo i confini dello stato di Israele. Tra i protagonisti il movimento Fatah, fondato verso i primi anni ’60 da Yasser Arafat (della nota famiglia palestinese degli al-Ḥusaynī), e sarà per anni la spina dorsale della lotta armata palestinese allo Stato d’Israele (nel 1967 entrerà a far parte dell’OLP).
Altro motivo di tensioni tra Israele ed i Paesi arabi fu il Piano di Siria e Giordania per la costruzione di una diga sul fiume Giordano con lo scopo di sottrarre allo Stato di Israele la maggior parte delle risorse idriche destinate a rendere fertili alcune delle zone aride del paese.
Ma i principali eventi che indussero gli israeliani (secondo quanto da essi dichiarato) a considerare necessario adottare una strategia offensiva volta a prevenire un possibile attacco da parte dei paesi arabi furono le manovre dell’esercito egiziano e il divieto di navigazione degli Stretti di Tiran per le navi israeliane.
Il 14 maggio 1967 l’Egitto dispose proprie truppe nel Sinai. Il 21 maggio chiese, ed ottenne, il ritiro delle forze di interposizione dell’ONU dal Sinai e il 23 maggio chiuse l’accesso al Mar Rosso per le navi israeliane. Tutto ciò fece ritenere agli israeliani che Nasser fosse pronto a scatenare una guerra. Ad accrescere questi timori contribuivano anche la crescente alleanza tra Siria, Egitto e Giordania e la crescente retorica bellicosa di Nasser. Al di là di ogni considerazione su quanto fossero realmente giustificati i suoi timori sta di fatto che Israele decise di lanciare un attacco preventivo.
andamento del conflitto
Il mattino del 5 giugno 1967 iniziò l’operazione “Focus”, un raid aereo a sorpresa col quale Israele distrusse a terra quasi completamente l’aviazione egiziana (286 aerei da combattimento di fabbricazione sovietica) e rese inutilizzabili le piste di decollo. Stessa sorte tocco subito dopo all’aviazione siriana. Nelle ore successive l’esercito israeliano penetrò nella striscia di Gaza e poi nel Sinai. L’aviazione giordana, invece, non fu colta di sorpresa anzi fu essa ad attaccare per prima alcuni campi di aviazione israeliani con una flotta di 24 modernissimi aerei. Gli israeliani però reagirono prontamente e prima distrussero i campi di atterraggio e poi tutti gli aerei giordani. Nella stessa giornata le brigate corazzate israeliane penetrarono in Cisgiordania.
Quello che successe nei successivi 5 giorni di guerra è così sintetizzato nell’enciclopedia online Wikipedia:
In 130 ore di guerra, Israele cambiò il volto del Medio Oriente e passò da 21000 a 102000 Km2: la Siria perse le alture del Golan, l’Egitto la striscia di Gaza che occupava dal 1948 e la penisola del Sinai fino al canale di Suez, mentre la Giordania dovette cedere l’insieme delle sue conquiste del territorio palestinese ottenute nel 1948. L’annessione di Gerusalemme venne ratificata all’indomani del conflitto, indicando la volontà d’Israele di conservare in tutto o in parte le sue conquiste.
I tre No di Khartoum
I leader israeliani pensavano di utilizzare i territori occupati come merce di scambio per realizzare accordi di pace con i Paesi vicini ma non ebbero il sostegno degli Stati Uniti che, invece, chiesero il ritiro incondizionato di Israele da tutti i territori occupati. Da parte loro i Paesi arabi, poco dopo la sconfitta, si riunirono in conferenza a Khartoum per concordare una posizione unitaria. L’orientamento condiviso dai leader della Lega Araba fu quello contenuto nel terzo paragrafo della risoluzione finale ovvero la riconferma dei “principi fondamentali a cui si attengono gli Stati arabi, vale a dire, nessuna pace con Israele, nessun riconoscimento di Israele, nessuna negoziazione con esso”. La risoluzione è famosa come “I tre NO di Khartoum”.
La ricerca di una pace giusta
Uno degli artefici della vittoria israeliana, Moshe Dayan (allora ministro della Difesa), era disposto, dietro sottoscrizione di accordi di pace, a ritirarsi dai territori occupati tranne che da Gerusalemme est (il centro religioso degli ebrei) assicurando comunque l’accesso alla Spianata per i musulmani e che Gerusalemme sarebbe rimasta aperta a tutte le religioni che in essa avevano i loro principali luoghi di culto.
Il 22 Settembre 1976 il Consiglio di sicurezza dell’ONU votava la Risoluzione 242: una serie di raccomandazioni (non vincolanti) allo scopo di trovare un compromesso tra le discordanti posizioni. Al primo punto la Risoluzione ribadiva (base del moderno diritto internazionale) “l’inammissibilità della guerra come strumento di acquisizione territoriale e la necessità di operare per una pace giusta e duratura che permetta a ciascuno stato della regione di vivere in condizioni di sicurezza” Chiedeva inoltre “il ritiro delle forze armate israeliane ‘dai’ territori (secondo il testo francese) o ‘da’ territori (secondo il testo inglese) occupati nel recente conflitto”, e “il rispetto e il riconoscimento dell’integrità territoriale e dell’indipendenza di tutti gli stati della regione”.
Israele accettò la risoluzione, con qualche riserva. Sottolineò la necessità di un accordo di pace complessivo e sicuro, ma non accettò immediatamente un ritiro completo. L’Egitto accettò formalmente la risoluzione, ma riteneva che Israele dovesse ritirarsi completamente dai territori occupati, senza condizioni. Anche la Giordania accettò la risoluzione, sperando di riprendere il controllo della Cisgiordania, che aveva perso nel conflitto. La Siria rifiutò la risoluzione perché non menzionava esplicitamente la necessità di un ritiro totale e incondizionato da parte di Israele dai territori occupati, compreso il Golan, occupato da Israele durante la guerra. Le Organizzazioni palestinesi (in particolare l’OLP) rifiutarono la risoluzione, poiché non faceva menzione diretta del riconoscimento dei diritti nazionali del popolo palestinese e del diritto al ritorno dei rifugiati.
Di fatto i contendenti rimasero fermi sulle loro posizioni e le diverse mediazioni non ebbero successo. Ci fu un nuovo esodo di palestinesi che andava a ingrossare la massa di profughi della guerra del 1948.
Poco dopo il cessate il fuoco tutti ricominciarono ad armarsi e il presidente egiziano, con il sostegno militare ed economico dell’Unione Sovietica, avviò una “guerra d’attrito” che si protrasse per circa 3 anni nel tentativo di riottenere il possesso della penisola del Sinai e il pieno controllo del Canale di Suez. La guerra registrò molti morti (tra gli israeliani vi furono 367 soldati uccisi e più di 3000 feriti; tra gli egiziani oltre 10.000 morti tra militari e civili). La guerra finì con un accordo di cessate il fuoco firmato dai due Paesi nel 1970, con le frontiere allo stesso posto dell’inizio del conflitto. La logica che guidò la decisione di fare un’altra guerra ad Israele subito dopo averne persa catastroficamente una è così spiegata dall’allora direttore del quotidiano al-Ahram:
«Se il nemico riesce a causare la perdita di 50 000 uomini, noi possiamo nondimeno seguitare a combattere, perché abbiamo riserve d’uomini [abbondanti]. Se noi riusciamo a causare la perdita di 10.000 uomini, [Israele] si troverà incontestabilmente obbligato a metter fine alle ostilità, perché non ha riserve di uomini [da impiegare]».
Come si legge su un numero della rivista Civiltà Cattolica del 2017, “ intanto gli scritti di Sayyid Qutb (ideologo dei Fratelli Musulmani), che era stato impiccato nel 1966, iniziarono a circolare dopo la guerra, ponendo le basi ideologiche del cosiddetto «islamismo radicale», che predicava il jihad contro l’Occidente. L’islamismo degli anni Settanta può essere certamente considerato come un frutto avvelenato di questo conflitto. «Caduti i miti del liberalismo, del socialismo e del nazionalismo arabo, molti sentirono che l’autentica alternativa era l’islam, e alcuni decisero di vivere questa alternativa in modo radicale, addirittura violento». Nello stesso periodo, anche in Israele iniziò ad affermarsi, soprattutto per opera dei rabbini, un tipo di fondamentalismo ebraico che, basandosi sulla cosiddetta «teologia della terra», sosteneva che non erano state le armate dell’Idf a conquistare i Territori, ma che Dio stesso li aveva liberati per il popolo eletto, e che quindi essi non dovevano essere in nessun modo restituiti ai palestinesi. Questa posizione, fatta propria dai partiti religiosi, e in parte anche dal Likud (oggi partito di Governo), ebbe un ruolo fondamentale nel contrastare il principio «terra in cambio di pace», proposto per lungo tempo dalla dirigenza israeliana (di sinistra) per risolvere la difficile questione”.
Una nota sulle “conseguenze” della guerra dei 6 giorni
È opinione diffusa che la guerra dei 6 giorni rappresenti uno spartiacque nella storia del conflitto arabo-israeliano.
Certamente, considerando il contesto in cui è maturato l’evento, i protagonisti dello stesso nonché la situazione determinatasi con la straordinaria vittoria israeliana, emergono elementi che, in qualche modo, “ridefiniscono i contorni del conflitto arabo-israeliano” (l’espressione è dello storico e attivista statunitense Norman G. Finkelstein nel suo “Image and reality of the Israel-Palestine conflict”, 1995).
C’è del vero in tutto ciò. Come non cogliere, ad esempio, il fatto che rispetto alla guerra del 1948 è cresciuto il ruolo dei gruppi e movimenti di guerriglia (nell’occasione confluiti nell’OLP), che diventeranno da lì in poi il principale punto di riferimento della lotta armata contro lo Stato di Israele. Come non cogliere, altro esempio, il fatto che come effetto a lungo termine della situazione creatasi dopo la guerra dei sei giorni (ovvero la fine dell’ideologia panaraba nasseriana) l’elemento religioso torna ad essere il principale elemento unificante tra gli arabi palestinesi.
Ma alcune delle analisi che circolano sugli effetti di lunga durata della guerra dei 6 giorni ci lasciano perplessi, perché ci sembrano fortemente in contrasto con i fatti. Una di queste analisi è proprio quella svolta dallo studioso americano Finkelstein, e ripresa in un saggio del 2007 dallo studioso italiano Giorgio Gallo. In essa si afferma che come effetto della guerra “nei fatti, anche se non nella retorica dei leader arabi, Israele viene legittimato e la sua esistenza diviene un fatto assodato, non più messo in discussione”.
Se questo esito si fosse realmente verificato (ma come abbiamo visto i fatti dicono il contrario) saremmo autorizzati a ritenere che nel 1967 il lungo conflitto arabo-israeliano fosse sostanzialmente giunto agli sgoccioli. Invece sono trascorsi altri 57 anni e, come tutti sappiamo, quel conflitto è tutt’altro che un fuoco spento. E la ragione di questo conflitto senza fine è quella ratificata dai Paesi arabi nella conferenza di Khartoum proprio 57 anni fa: “nessuna pace con Israele, nessun riconoscimento di Israele”.
Pertanto, a nostro avviso, dire che già nel 1967 Israele viene legittimato e che da lì in poi la sua esistenza è un fatto assodato non più messo in discussione può anche apparire una ingenuità, ma non lo è affatto. È utile per sostenere l’idea che dal 1967 in poi la responsabilità del conflitto senza fine ricade tutta su Israele (ma anche questo, come vedremo, viene smentito dai fatti).
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