ELEZIONI POLITICHE 2022
In mezzo al guado
I risultati delle elezioni politiche del 25 settembre erano del tutto prevedibili e in gran parte previsti: netta vittoria della coalizione di Centrodestra e netta sconfitta della coalizione di Centrosinistra.
Come si è giunti a questi risultati?
Ci convince poco la risposta che troviamo su molti organi di informazione, secondo cui vi è stato uno spostamento a destra dell’elettorato italiano. I dati ci dicono che non è così: la coalizione di Centrodestra ha ottenuto quasi lo stesso numero di voti (circa 12 milioni) che aveva ottenuto alle elezioni politiche del 2018. Stessa cosa per il Centrosinistra (circa 7 milioni allora come adesso). E risultati analoghi vi sono stati anche nella tornata elettorale precedente. Quindi nessun ulteriore spostamento a destra degli italiani (da alcuni anni a questa parte).
Il fatto che la destra abbia ottenuto più seggi in Parlamento (e perciò ha vinto) e che ora si appresti a governare il Paese è un’altra cosa (molto dipende dai meccanismi di funzionamento della legge elettorale: il Centrodestra, alla Camera, nel 2018 ha ottenuto circa 12 milioni di voti e 109 deputati; oggi, elezioni 2022, con circa lo stesso numero di voti assoluti ha ottenuto 235 deputati)
Non si capisce perché nel corso della legislatura sia stata trascurata una questione fondamentale come il cambiamento della legge elettorale. E soprattutto non si capisce perché lo abbia fatto il Pd.
Dopo aver sostenuto il referendum promosso dal M5s sulla riduzione del numero dei parlamentari (contraddicendo la sua tradizionale avversione per questo genere di modifica), il Pd si era solennemente impegnato a lavorare sia per la revisione dei regolamenti di Camera e Senato (necessari per assicurarne il buon funzionamento), sia per il varo di una nuova legge elettorale, anche per superare le storture nella rappresentanza dei cittadini introdotte dalla riduzione dei parlamentari.
Era l’autunno di tre anni fa. L’argomento non è più stato affrontato.
Il punto insomma non è che vi sia stato uno spostamento a destra dell’elettorato. Il punto è che il Centrosinistra, e in particolare il Pd, ha affrontato male le elezioni, cioè con una strategia sbagliata, nel 2022 come nel 2018.
E questa volta rischia di affrontare male anche la sconfitta, cioè non sapendo che pesci pigliare.
Ma andiamo con ordine.
Nel 2018 la ragione della sconfitta è stata interamente addebitata all’allora segretario del partito Matteo Renzi ed alla sua linea politica troppo liberal, di riformismo moderato.
In realtà la linea liberal di Renzi il Pd, o meglio la componente anti liberal del partito (quella che in buona parte ne controllava la struttura e l’organizzazione), aveva incominciato a contrastarla già prima delle elezioni: adoperandosi attivamente per far fallire il referendum istituzionale proposto dal segretario e criticando aspramente le riforme che il governo a guida Pd aveva portato avanti (Jobs Act, la Buona Scuola ecc).
In molta parte della sinistra (anche dentro il Pd) la sconfitta elettorale del 2018 è stata salutata con gioia. Già durante la campagna elettorale, e con maggior forza subito dopo, una parte consistente del Pd guardava al M5s come ad un importante interlocutore col quale cercare intese ed alleanze, subendo il fascino delle sue populistiche proposte anticasta e di lotta alla povertà. Secondo il nuovo gruppo dirigente del Pd, nel 2019, l’alleanza tattica con il M5s (tra l’altro propiziata dallo stesso Renzi per contrastare la richiesta dei pieni poteri avanzata da Salvini) sarebbe dovuta diventare strategica e consentire al Pd di vincere le future elezioni. Non a caso il nuovo segretario Zingaretti indicò in Giuseppe Conte (allora presidente del Consiglio, attualmente leader del M5s) il “punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti”.
Tutto ciò per dire che fino al 21 luglio di quest’anno, erano in molti a ritenere probabile che alla naturale scadenza della legislatura (primavera del 23) il Centrosinistra si sarebbe presentato alle elezioni come una coalizione che comprendesse il M5s. Ma un incidente di percorso ha allontanato tale prospettiva: il M5s (insieme a Lega, FI e FdI), mostrando di mettere al primo posto gli interessi di partito rispetto a quelli della nazione, non ha confermato la fiducia al governo di unità nazionale guidato da Draghi e sostenuto convintamente dal Pd. L’incidente provocato dal M5s ha portato alla caduta del governo e alle elezioni anticipate.
Il gruppo dirigente del Pd ha dato l’impressione di essere entrato in confusione: il segretario Letta, che da tempo diceva di lavorare per la costruzione di un “campo largo” di centrosinistra ha cambiato strategia. Ha escluso la possibilità che della coalizione potesse far parte il M5s. Ha quindi stretto un accordo con il partito di orientamento liberal di Carlo Calenda e con +Europa. Ma per accontentare l’area massimalista, subito dopo ha fatto un accordo anche con Sinistra Italiana e Verdi. Cosa che ha portato Calenda a disdire l’accordo da poco siglato perché, ha spiegato Calenda ospite di Lucia Annunziata su Rai3, “ serve un minimo di coerenza valoriale. … Il Pd ha fatto un patto con noi e poi un patto con contenuti contrari, con chi ha votato 55 volte contro la fiducia a Draghi, con chi dice di ‘no’ a tutto e … la gente non ci avrebbe capito più niente”. “Il grande dubbio che la sinistra italiana non scioglie mai”, ha spiegato ancora Calenda, “è essere partito di governo o massimalista. Un dubbio che risolve dicendo: ‘siamo ciò che non sono gli altri’. Noi siamo i buoni e gli altri sono i cattivi. Ma così si perde”.
Alla fine Letta si è trovato quasi da solo a contrastare l’avanzata di un Centrodestra a guida FdI dato in strepitosa crescita di consensi da tutti i sondaggi. E il Pd come sappiamo ha perso.
Questa volta la colpa della sconfitta non è stata attribuita interamente al segretario del partito come nel 2018. Sono molti infatti coloro che accusano di aver causato la vittoria della Meloni al Senato il cosiddetto Terzo Polo (del quale però, guarda caso, una componente è Italia Viva, cioè il partito attuale di Renzi): se i voti di quest’ultimo fossero confluiti sui candidati del Pd la destra non avrebbe vinto.
È una tesi un po’ bislacca, perché sul piano della logica nessuno può affermare con sicurezza che qualora il Terzo Polo non si fosse presentato alle elezioni o avesse invitato i suoi potenziali elettori ad appoggiare i rappresentanti del Pd i suoi potenziali elettori avrebbero effettivamente votato Pd. È più probabile che sarebbero rimasti nell’astensione (il bacino dal quale maggiormente – secondo l’analisi dei flussi – ha attinto il Terzo Polo). Ma non è solo una tesi bislacca, è anche una tesi aritmeticamente sbagliata, come sostiene, ad esempio, Carmelo Palma sul quotidiano online Linkiesta del 30 settembre:
“ Se anche tutti, proprio tutti i voti di Italia Viva – Azione fossero confluiti in tutti i collegi uninominali del Senato sui candidati della sinistra (e quindi i due partiti si fossero eroicamente suicidati per la patria democratica) la destra avrebbe continuato ad avere a Palazzo Madama una maggioranza saldissima. A passare di mano da destra a sinistra sarebbero stati solo quattro collegi uninominali (Ravenna, Livorno, Roma Municipio XVI e Roma Municipio VII). La destra, nella migliore delle ipotesi, al Senato avrebbe avuto 111 seggi, ampiamente sopra la maggioranza assoluta di 104”.
E ora il Pd cosa farà?
Questa parte dell’analisi è ben svolta, a nostro avviso, da Angelo Panebianco sul Corriere Della Sera del 29 settembre:
“Enrico Letta, preso atto della sconfitta, traghetterà il partito fino al congresso e si metterà da parte. Non è esagerato definire drammatiche le scelte che ha di fronte a sé il Pd. Da quelle scelte dipenderà il futuro dell’opposizione e quindi, anche, in larga parte, quello della democrazia italiana. Si dice che il Pd non abbia una identità. Ma il suo problema è che ne ha troppe. Per questo Letta ha dovuto fare l’equilibrista fra le opposte fazioni, con le loro diverse visioni del mondo. Per questo è stata trasmessa agli elettori un’immagine confusa e insipida. …
Sceglierà quel partito di diventare ciò che non è mai stato sul serio, ossia un autentico partito riformista? In tal caso, la strada è tracciata: netta chiusura verso i 5 Stelle e incontro con quello che possiamo forse definire il nuovo «Partito repubblicano», ossia con Calenda e Renzi. Oppure, come propone la sua (forte) componente massimalista, sceglierà l’alleanza con i 5 Stelle, la nuova Lega Sud? Per dirla con Renzi, opterà per il jobs act o per il reddito di cittadinanza? Il riformismo o l’assistenzialismo di stampo peronista? …
L’apertura ai 5 Stelle, quale che sia il prezzo che il Pd pagherebbe nel medio-lungo termine, è in un certo senso la scelta più facile e forse persino più ovvia. In questo modo il Pd non lascerebbe a Conte e ai suoi il monopolio dell’opposizione urlata, più vociante, contro il governo. E inoltre, darebbe soddisfazione a quella parte, a occhio molto ampia, del Pd che si sente affine ai 5 Stelle, che non ha vere ragioni di contrasto con loro.
L’altra strada, quella riformista, è assai più difficile. Fare l’opposizione responsabile è più complicato che fare l’opposizione urlata. Ma soprattutto obbligherebbe il Pd a fare i conti con il proprio passato”.
L’immagine in evidenza è tratta da: politicainsieme.com
Una risposta
[…] riferimento al nostro articolo “In mezzo al guado” abbiamo ricevuta da una lettrice un commento che critica la nostra posizione relativamente al […]