rassegna stampa – 24 01 2022

Dai giornali dei giorni scorsi, una selezione di temi e notizie che richiamiamo all’attenzione

Il Sole 24 Ore, l’Italia incassa più di quanto dovrà restituire, ma non è una bella notizia
Il Foglio, la rivoluzione verde costa, e pure troppo
Quotidiano Nazionale, boom di dimissioni dal lavoro anche in Italia
Il Sole 24 Ore, siamo pronti a trattare il Covid come un normale raffreddore? 

IL SOLE 24 ORE
l’Italia incassa dall’UE più di quanto deve restituire, ma non è una bella notizia

Nel 2021 il nostro Paese ha versato nelle casse dell’Unione Europea meno di quanto, dall’Unione, ha ricevuto. Non era mai successo, perché l’Italia ha sempre fatto parte del gruppo di paesi definiti “contribuenti netti”. Per la prima volta abbiamo avuto un saldo positivo, che si aggira intorno ai 3,2 miliardi di euro.

Come spiega Giuseppe Chiellino in un articolo apparso su Il Sole 24 Ore del 19 01 2022, a fare la differenza rispetto al saldo negativo dell’anno precedente sono stati i quasi 9 miliardi di aiuti a fondo perduto compresi nell’anticipo di circa 25 miliardi del Pnrr (il piano nazionale di ripresa e resilienza) versato a metà agosto dalla UE. A questi vanno aggiunti  circa 14,5 miliardi di “rientri” da Bruxelles. In tutto 23,45 miliardi contro i 20,28 miliardi versati dall’Italia alla UE a consuntivo 2021.

Certamente non è un fatto di cui andare fieri.

In pratica l’Italia passa dal gruppo di paesi contribuenti netti al gruppo dei  “beneficiari netti”, cioè tra i Paesi “poveri “ dell’Unione, e dunque destinatari della solidarietà e delle risorse comuni.

Con l’arrivo della pandemia, che ha colpito pesantemente l’Italia ed ha bloccato tutta l’economia europea, l’Unione ha messo in campo strumenti di solidarietà prima neppure ipotizzabili, da Sure a NextGeneration.

Fino al 2020 l’Italia era il terzo contribuente netto dell’Unione, dopo la Francia e soprattutto dopo la Germania che è di gran lunga il socio che paga la tessera più generosa, essendo anche quello più ricco. Polonia, Ungheria e Grecia sono invece in testa alla classifica dei beneficiati.

Ma l’ingresso dell’Italia nel gruppo dei Paesi poveri dell’Unione non è stato determinato solo dalla pandemia. Come fa notare Chiellino, l’arretramento dell’Italia nelle classifiche della prosperità dei Paesi europei è relativa a tutto l’ultimo decennio. Tanto che nella programmazione 2021 -2027, le regioni italiane meno sviluppate sono passate da 5 a 7, e quelle più ricche sono diminuite da 13 a 11.

Questo impoverimento, che si traduce in parametri come Pil, reddito procapite, disoccupazione, scolarizzazione, ha contribuito da una parte all’aumento dei contributi europei all’Italia nel bilancio pluriennale UE per il periodo 2021 -2027. E dall’altra alla riduzione dei versamenti italiani al bilancio comune.

Il NextGeneration Eu (con  il Pnrr), se ben gestito, dovrebbe portarci fuori da questa situazione di declino.

IL FOGLIO
La rivoluzione verde costa, e anche troppo

La parola che mette paura è ormai sulla bocca di tutti: Inflazione. Certo, un po’ di inflazione era prevedibile e prevista, con l’avvio della ripresa economica dopo il blocco causato dalla pandemia. Ma il timore che inizia a farsi strada è che da fenomeno passeggero, l’aumento dei prezzi possa trasformarsi in fenomeno permanente.

Quello che più desta preoccupazione è il continuo aumento dei prezzi dell’energia e questo, più che con la ripresa post pandemia ha a che fare con la transizione ecologica.

Come spiega il un editoriale del 17 01 2022 il direttore del quotidiano Il Foglio, riprendendo una sintesi apparsa sul Financial Times,  le nuove spese previste dai governi in materia ambientale stanno facendo aumentare la domanda di materiali necessari per costruire un’economia più pulita. Allo stesso tempo, l’inasprimento delle normative sta limitando l’offerta attuale di energia meno pulita, scoraggiando gli investimenti in miniere, fonderie o in qualsiasi fonte che produca CO2. Il risultato indesiderato è la “greenflation”: aumento dei prezzi di metalli ed elementi come rame, alluminio e litio, essenziali per l’energia solare ed eolica, le auto elettriche e altre tecnologie rinnovabili.

Prendendo spunto dalla sintesi del Financial Times, il direttore Cerasa fa alcune riflessioni. La principale è questa: le rivoluzioni a costo zero non esistono e la transizione ecologica se guidata in modo eccessivo dall’ideologia rischia di creare squilibri inaccettabili. E critica la decisione della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, di voler fare dell’Europa il primo continente “climaticamente neutro”.  Questo fatto – dice – ha portato ad abbandonare precocemente le fonti energetiche tradizionali senza tra l’altro mettere in conto la prevedibile ripresa delle tensioni tra Russia e Stati Uniti proprio sui rifornimenti del gas.

L’editoriale del Foglio giunge alle seguenti conclusioni:
L’aumento rapido dell’inflazione (+3,9 per cento su base annua), determinato in Italia prevalentemente dall’aumento dei costi dell’energia, costringe i professionisti dell’ambientalismo dogmatico a fare i conti con la realtà e a decidere da che parte stare: scommettere sulla rivoluzione green senza badare alle conseguenze della rivoluzione o trovare un punto di equilibrio.

Per anni è stato raccontato che la rivoluzione verde, oltre a essere necessaria all’ambiente, è anche conveniente dal punto di vista economico. …
La verità è che la transizione ecologica non è fatta per portare un surplus di competitività, o comunque non sempre, e aver ignorato questo problema è una delle cause dell’impreparazione attuale dei governi.

QUOTIDIANO NAZIONALE
Boom di dimissioni dal lavoro anche in Italia

Proponiamo nuovamente all’attenzione un tema del quale nei giorni scorsi i giornali si sono spesso occupati, ovvero le numerose dimissioni volontarie dal posto di lavoro. La precedente segnalazione fatta su questo blog si riferiva alla realtà degli Stati Uniti, dove il fenomeno nel corso del 2021 ha raggiunto dimensioni di massa (circa 4 milioni di casi al mese). Ora, sia pure con numeri nettamente inferiori, questo fenomeno si va diffondendo anche nel nostro Paese.

Il Quotidiano Nazionale del 19 01 2022 titola: Lavoro, boom di dimissioni tra i giovani. Il giornalista Antonio Troise dice che il trend non è da sottovalutare, considerando che nei primi mesi del 2021 sono stati circa 770mila i lavoratori con contratti a tempo indeterminato che hanno deciso di mollare il posto di lavoro sicuro, con tanto di contributi previdenziali e benefit.

Il giornalista fa poi notare che in una ricerca condotta dall’Aidp (Associazione nazionale della direzione del personale), su un campione di 500 imprese, a guidare la classifica di chi ha avuto il coraggio di lasciare un ufficio sicuro sono i giovani fra i 26 ai 35 anni, seguiti dai colleghi di poco più anziani, fino ai 45 anni di età.

Dalla ricerca Aidp risulta che, tra coloro che hanno lasciato il posto di lavoro, le motivazioni più gettonate sono: aspirazione a condizioni più favorevoli (47%), trovare un maggiore equilibrio fra la vita in azienda e quella privata (41%), ricerca di maggiori opportunità di fare carriera (38%). Ma una lettera di dimissioni su quattro è dettata dalla volontà di dare un nuovo senso alla vita.

È chiaro che tutto questo è un segnale del fatto che siamo in presenza di una netta ripresa del mercato del lavoro, conseguenza diretta di una economia in forte espansione.

La pandemia – ha spiegato al giornale la presidente dell’Aidp, Matilde Marandola –  ha sparigliato le carte. C’è un cambio di mentalità evidente. I giovani non si accontentano più del primo lavoro che capita, cercano un contesto che possa essere accogliente, anche dal punto di vista etico, della sostenibilità e della responsabilità sociale. Le aziende devono adeguarsi al nuovo paradigma non solo per attrarre i giovani talenti, ma anche per trattenerli.

IL SOLE 24 ORE
Siamo pronti a trattare il Covid come un normale raffreddore? 

Il Covid sta diventando una endemia o resta ancora una pandemia?
Da alcuni giorni a questa parte, con l’aiuto di esperti, virologi ed epidemiologi, il tema viene discusso su tutti gli organi di informazione. È giunto il momento di allentare (o addirittura eliminare del tutto, come si pensa di fare in Paesi come l’Inghilterra e la Spagna) le misure troppo limitanti fin qui adottate e incominciare a convivere col virus Sars-CoV-2 come fosse il virus di una normale influenza?

Non c’è una risposta unanime da parte degli esperti. Per ora, nel nostro Paese, sia tra i virologi che tra i decisori politici, sono più numerosi coloro che optano per una linea di prudenza e quindi per mantenere le misure di contrasto alla pandemia. È di questo parere ad esempio il portavoce del Comitato tecnico scientifico che presta servizio di consulenza al nostro Governo, il prof. Silvio Brusaferro, che è anche presidente dell’Istituto superiore di Sanità. Il fronte, invece, degli endemisti ha il rappresentante più convinto ed attivo, oltre che autorevole, nel prof. Matteo Bassetti, che dirige la clinica di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova.

Naturalmente tutti parlano della endemia come della naturale possibile evoluzione dell’attuale situazione. Differisce sostanzialmente la valutazione dei tempi di questa evoluzione. E intanto per offrire elementi di oggettività a chi deve prendere delle decisioni vengono condotte analisi della situazione attuale utilizzando i dati di cui si dispone.
Tra le analisi condotte, ci sembra particolarmente interessante quella esposta da Alberto Guidi su 24+ (edizione online del Sole 24 Ore) del 19 gennaio scorso.

Per rispondere alla domanda se è tempo di trattare il Covid come una normale influenza, l’analisi esposta da Guidi “delinea un confronto generale e temporale tra le pericolosità del Covid 19 e quella dell’influenza”. In particolare vengono confrontati i tassi di mortalità attraverso una serie di grafici interattivi.
Per l’analisi nel suo complesso rimandiamo al link di cui sopra. Qui ci limitiamo a richiamare alcuni risultati significativi.

Da un  primo confronto (che, per la difficoltà di reperire dati relativi al nostro Paese fa riferimento a dati relativi agli Stati Uniti) risulta che un malato di Covid 19 di qualsiasi età ha cinque volte più probabilità di finire ricoverato rispetto a quanto avviene con l’influenza e le malattie ad essa associate. Di conseguenza anche il rischio di decesso risulta più elevato di un fattore dell’ordine delle dieci volte (0,62% contro 0,06%). Per gli over 65 i differenziali si riducono, ma la quota di decessi tra i contagiati di Covid resta comunque sei volte maggiore.

Questi dati offrono però una analisi parziale, perché catturano l’andamento della pandemia dal suo inizio fino a fine settembre 2021. Non catturano appieno l’effetto dei vaccini e dell’arrivo di Omicron, che hanno ridotto di molto la letalità di Covid per i vaccinati (e in parte anche per i non vaccinati). Più significativi, a questo scopo, alcuni dati che provengono dall’Inghilterra, grazie ai quali è possibile confrontare la media dei morti giornalieri per influenza e polmonite tra il 2015 e il 2019 con i decessi per Covid nel 2021. La distanza tra le due curve è netta nei primi due mesi dell’anno durante i quali il numero di morti per Covid è di 44.640 contro i 7.450 dell’influenza, mentre nei restanti dieci mesi le due curve registrano numeri simili. La protezione data dalla doppia o tripla dose di vaccino fa si che la mortalità di Covid sia paragonabile a quella dell’influenza.

Possiamo dedurre – si chiede Guidi – che il Covid sia ormai simile a una comune influenza?
Non del tutto. È necessario fare alcune precisazioni. Se guardiamo ai dati italiani (sempre riferiti a un confronto tra i morti per Covid e per influenza, la logica è del tutto simile a quella descritta per l’Inghilterra. Ma se si considerano i dati degli ultimi tre mesi e si confrontano con quelli di stagioni precedenti (escludendo la stagione 2016-17, che è stata una stagione influenzale particolarmente virulenta) il numero attuale di morti per Covid risulta ancora tra le due e le cinque volte superiore al numero di morti per influenza.

Inoltre se è vero che il tasso di mortalità per i vaccinati è ormai prossimo a quello dell’influenza, lo stesso non si può dire per i non vaccinati che hanno a confronto otto volte più probabilità di morire per Covid. E il rischio diventa 70 volte maggiore se si considerano gli ultraottantenni non vaccinati rispetto a quelli vaccinati con dose booster.

Insomma, sono le conclusioni di Guidi, non siamo ancora pronti: per quanto tutti noi vorremmo poter considerare il Covid come un’influenza, in Italia, non siamo ancora arrivati allo stesso livello di pericolosità. Rispetto a un anno fa siamo però molto vicini a questo “traguardo” che sarà raggiungibile tanto più velocemente quanto maggiore sarà il numero di persone che sceglieranno di vaccinarsi.

L’immagine in evidenza è tratta da: conoscimilano.it
Le altre immagini sono tratte, nell’ordine, da: mef.gov.it; tldinsight.com; quotidiano.net; infonotizienews.it

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