Great Resignation, la fuga di massa dal posto di lavoro

Great Resignation, la “grande dimissione”, così la chiamano. Se ne  parla ormai da mesi: molti americani abbandonano il loro posto di lavoro volontariamente ed anche senza avere un ben preciso piano B. Danno le dimissioni al ritmo di circa quattro milioni al mese ed è una tendenza che dura ormai dalla primavera scorsa.

Poiché si tratta di un fenomeno che non può più essere considerato marginale, è lecito chiedersi  quali sono le motivazioni che spingono le persone a lasciare il posto di lavoro.

Il quotidiano Affaritaliani.it risponde in questo modo:
Le motivazioni sono varie, dalle più semplici alle più complesse, che si riflettono in un generale senso di malessere, maturato durante lo stato d’emergenza (determinato dalla pandemia –ndr-) e scoppiato successivamente. Andiamo per gradi. C’è chi, banalmente, ha smesso di accontentarsi di paghe troppe basse, poca considerazione aziendale e team working poco umani, cogliendo l’occasione per evadere. 
C’è chi invece, più interiormente, ha iniziato a riflettere sul concetto stesso di lavoro: basta a giornate intere in ufficio, orari impossibili, doppi turni e straordinari non pagati. La vita è anche tanto altro. Molto spesso il problema principale è infatti il burnout: l’esaurimento mentale, fisico ed emotivo, tipico nei settori a stretto contatto con il pubblico quali salute, ristorazione e ospitalità. Infine c’è chi dopo il Covid 19 ha capito l’importanza del concetto di flessibilità lavorativa, smartworking e gestione indipendente del tempo: tutti elementi chiave alla base della grande fuga
”.

Certo, il fenomeno è complesso e probabilmente le motivazioni sono varie e tra esse avranno pure un ruolo sia fattori psicologici sia fattori collegati ad un più generale processo di ridefinizione del concetto di lavoro, specie tra le nuove generazioni.

Ma senza andare molto lontano, c’è anche chi cerca spiegazioni nel funzionamento dei meccanismi economici che normalmente regolano il mercato del lavoro. Una analisi interessante, in tal senso, è quella svolta da Federico Rampini su Global del 01 01 2022, la newsletter settimanale da lui tenuta per i lettori del Corriere online. Il dato della Great Resignation, secondo Rampini, va incrociato con il dato della riduzione delle migrazioni:

Il numero di visti d’ingresso rilasciati dagli Stati Uniti è sceso del 60% dal 2016 al 2020. Prima per una scelta deliberata dell’Amministrazione Trump, poi perché la pandemia ha fornito a Joe Biden una buona ragione, o un pretesto, per mantenere intatte molte restrizioni del suo predecessore. Risultato: ci sono milioni di stranieri in meno, negli Stati Uniti, rispetto a quelli che ci sarebbero oggi se fossero continuati i flussi d’ingresso pre-2016. Alla fine del primo semestre di quest’anno c’era una lista d’attesa di 1,4 milioni di richieste di visti per lavoro, bloccati dai ritardi dell’Amministrazione Biden”.

Cosa accade – si chiede Rampini – in una situazione in cui i datori di lavoro non possono più attingere a un abbondante bacino di nuovi immigrati in arrivo, disposti a lavorare per condizioni molto misere?
Aumenta il potere contrattuale dei lavoratori.  Tra essi ci sarà chi pretende salari più alti e ci sarà anche chi se na va “sbattendo la porta” perché   “da un lato non sono soddisfatti dall’ultimo lavoro, d’altro lato sono ottimisti sulla possibilità di trovare di meglio”.

Ed è quel che sta succedendo in America.
L’aumento medio dei salari americani è del 4,6%, già piuttosto elevato rispetto al passato, e con punte del più 15% in alcune mansioni come camerieri, inservienti, commesse e cassiere. “Per la prima volta si è invertita la forbice, sono i non laureati quelli che spuntano i migliori rialzi salariali, perché è in quella zona dell’economia che si verificano le penurie di manodopera più acute. Tipico l’esempio di Amazon che “guida” la corsa al rialzo avendo già aumentato per fattorini e magazzinieri il suo salario minimo d’ingrasso a 18 dollari orari, più del doppio del minimo federale (7,25 dollari l’ora)”.

Nerll’articolo di Rampini è anche presente un rilievo critico nei confronti dei principali media americani, allineati con il pensiero unico politically correct (“che si sovrappone al pensiero unico liberista”). È il pensiero espresso dall’ala sinistra del partito democratico, che vede come unica opzione quella di riaprire le frontiere e ignora l’altra, quella di “aumentare i salari per attirare fasce di disoccupati scoraggiati tra i propri connazonali”.
In realtà,  dice Rampini, “In un mercato del lavoro improvvisamente ‘orfano’ dei flussi migratori di una volta, i ceti meno abbienti stanno vivendo una rivincita. Ma di questo nesso evidente tra la minore immigrazione e i miglioramenti salariali non v’è traccia nei principali media americani”.

Qui l’analisi di Rampini tocca un tema che lui non sviluppa ma che invece è di fondamentale importanza per capire la caduta di consenso popolare dei dem presso la classe operaia.

Rampini, in pratica, critica la tendenza che si è affermata nella sinistra “radicale” americana, orientata a fare una narrazione di sé come paladina della difesa dei diritti delle minoranze spostando su questo asse il tradizionale programma politico dei partiti di sinistra che mettevano al centro l’impegno per salvaguardare l’occupazione ed il benessere economico delle classi lavoratrici.

La foto in evidenza è tratta da biancolavoro.it
Le altre foto sono tratte, nell’ordine, da ilfattoquotidiano.it; ilfoglio.it

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