Che cosa vediamo quando guardiamo un animale? (Anche il viceversa è interessante)

Ho letto il secondo volume della collana Tracce della casa editrice Contrasto, dopo aver goduto del precedente Essere una quercia che ho qui recentemente consigliato e ho acquistato una fototrappola.
Le due cose sono strettamente collegate.
Il libro è di Jean-Christophe Bailly, filosofo e poeta che ha insegnato Storia del paesaggio presso l’Ecole Nationale Supérieure de la Nature et du Paysage di Blois e si intitola Il versante animale.

Come altre sue opere è un ibridato di genere (la definizione viene da Il manifesto, 5 dicembre 2021) dove il poeta, in dialogo con Rilke, Piero di Cosimo, Caravaggio racconta di caprioli che appaiono all’improvviso e altrettanto repentinamente scompaiono. A pagina 75 c’è un elenco che trovo poetico:

La picchiata di un falco pellegrino,
il rosa e il verde del corpo e delle ali della sfinge della vite,
il piano sequenza dei grandi sciami di uccelli,
il modo in cui le anatre o i cigni mettono la testa sotto le ali,
il volto quasi lunare della razza,
i salti dei delfini intorno alle barche,
l’estrema e quasi impensabile dolcezza dei cerbiatti,
la materia delle corna dei cervi, quasi un lichene,
il modo in cui le strisce sono distribuite sul mantelli e la groppa delle zebre di Grevy e delle zebre di Burchell,
l’opus incertum delle macchie della pantera, che sembrano fatte delle sue stesse impronte,
la faccia delle lontre che sembra così giocosa e il modo in cui quelle che vivono sul mare (nel nord della California) rompono le ostriche aiutandosi con una pietra che tengono appoggiata sopra alghe galleggianti,
il battito degli occhi degli uccelli notturni o l’occhio rotondo e giallo della civetta delle nevi che si apre nella massa del suo piumaggio bianco punteggiato di grigio e nero,
il ragno che tesse la sua tela e conclude il lavoro con un filo di avvertimento,
la procavia arboricola che al crepuscolo emette il suo grido stridulo e pieno di agonia mentre la sua cugina delle rocce si arruffa silenziosamente nel vento,
le onde di pacifica lentezza che ristagnano intorno ai ruminanti,
il semplice stiracchiarsi di un gatto su una pietra scaldata dal sole …

E quando il filosofo prende la parola, dopo aver dialogato con Derrida, con Deleuze, con Guattari, racconta dell’umwelt, l’universo di segni nel quale ogni essere è inserito. E’ un concetto complesso e difficile, ma rappresenta quello che ciascuno fa nel creare e ricreare continuamente l’ambiente in cui vive.

Un completo e stimolante esame di questo concetto lo si può approfondire nei testi del suo creatore, il biologo e filosofo estone Jacob von Uexküll: ogni specie ha un suo proprio ambiente con cui vive in simbiosi e ignora tranquillamente tutto il resto. Sono le facce del medesimo foglio.

E’ una ingannevole illusione che la zecca del cane, mentre sta sul ramo, condivida lo stesso spazio dello scoiattolo che vi corre sopra, delle formiche che fanno la fila o dell’uccello che vi è appollaiato. Essa non vede, non ha udito, non percepisce il gusto, sente veramente pochi stimoli del mondo a lei esterno. Da adulta si arrampica fino alla sommità del ramo grazie alla sensibilità fototassica dei suoi tegumenti e, da lì, se avverte l’odore dell’acido butirrico del sudore di un mammifero, si lascia cadere. Se ha la fortuna di atterrare su un animale e ne sente il calore, cerca uno spazio di pelle privo di peli e conficca il rostro. Quando è sazia, cade a terra, depone le uova e muore.

I suoi comportamenti hanno il crisma della prevedibilità. E’ un tutt’uno con il suo umwelt: essa succhierà ogni liquido purché sia caldo.

L’uomo invece, come direbbe Deleuze, non segue degli istinti, realizza delle istituzioni e quindi il suo ambiente non è un umwelt, ma bensì un umgebung, non è un ambiente stabile, è uno sfondo, un ambito nel quale ognuno ritaglia singole e apparentemente solide umwelten.

In chiusura il poeta riprende il sopravvento e racconta del gattosfinge sul sentiero doganale a mare che da Vernazza conduce a Monterosso e che scompare se appena qualcuno prova ad accarezzarlo.

Nel libro, copertina e risguardi, ci sono immagini tratte da George Shiras, cacciatore pentito che a fine Ottocento in Pensylvania collegò una macchina fotografica e lampade da illuminazione a una rete di fili d’inciampo: era l’animale stesso ad attivare il complicato meccanismo di ripresa. E così ho acquistato una fototrappola; il marchingegno per catturare immagini fisse o in movimento è oggi molto più semplice: una fotocamera con flash anche disattivabile, uno o più sensori a raggi infrarossi, una scheda di memoria, un pacco di pile, il tutto contenuto in una scatoletta impermeabile da lasciare in un luogo opportuno e poi consultare, anche dopo giorni o settimane, nella speranza che abbia svolto bene il suo compito.

Delle illustrazioni di Shiras e del fototrappolaggio scriverò presto.

Le immagini degli animali con macchina fotografica provengono da boredpanda.com
P.S.: Mi piacerebbe sapere qualche cosa di più sui sentieri doganali, in particolare di quello delle Cinqueterre.

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