ELEZIONI USA
Oltre il blu e il rosso /1

I risultati del voto

Più si è andati avanti a ricontare le schede elettorali e più è risultato evidente che quella di Joe Biden è stata una vittoria netta (è dell’altro ieri la notizia che i procuratori della Georgia e della Pennsylvania hanno definitivamente assegnato la vittoria in questi due stati a Biden). Joe Biden ha ottenuto circa 79 milioni di voti, 6 milioni in più di Donald Trump, superando quest’ultimo nella maggioranza degli States e assicurandosi 306 dei grandi elettori già designati contro i 232 di Trump. I media americani dicono che Biden ha battuto tutti i record, avendo preso più voti di qualsiasi altro candidato alla Casa Bianca nella storia Usa.

A cosa è dovuto questo risultato, sorprendente per Trump ma non per Biden (che non ha mai manifestato dubbi sulla possibilità di una sua vittoria).

Innanzitutto bisogna capire chi è Joe Biden e come si è presentato all’elettorato americano.

Il moderato Joe Biden

Il nuovo presidente degli Stati Uniti non è certamente nuovo alla politica. Fin da giovane è stato un esponente dell’area moderata del Partito Democratico e come tale è stato eletto senatore per sette volte, fin quando nel 2009 ha lasciato la carica di senatore per assumere quella di Vicepresidente degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Obama, carica che ha ricoperto fino al 2016.

Come si è presentato agli americani, ovvero con quali obiettivi politici, Joe Biden  lo ha efficacemente riassunto durante il suo discorso della vittoria, tenuto l’8 novembre a Wilmington:

Ho corso per questa carica per far recuperare all’America la sua anima, per ricostruire il ceto medio, la spina dorsale di questa nazione, e per rendere l’America di nuovo rispettata in tutto il mondo. Per unire tutti noi, nel nostro Paese. …  Sono orgoglioso della coalizione che abbiamo costruito, la più vasta e diversa della storia. Democratici, repubblicani, indipendenti, progressisti e moderati, conservatori, giovani e vecchi, di città,sobborghi o campagna, gay ed etero, transgender, bianchi, latinos, asiatici e nativi americani. … Lo dissi fin dall’inizio, volevo che questa campagna rappresentasse l’America. Ci siamo riusciti. … Ora, per andare avanti dobbiamo smettere di trattare i nostri avversari come nemici. Non sono nemici. Sono americani. Sono tutti americani. … Io credo che gli americani ci abbiano chiamato a guidare le forze della correttezza e dell’equità, la forza della scienza e la forza della speranza, per affrontare le grandi battaglie del nostro tempo. La battaglia per mettere sotto controllo il virus. La battaglia per costruire la prosperità. La battaglia per garantire cure mediche alle famiglie. La battaglia per la giustizia razziale, per sradicare il razzismo sistemico di questo Paese. … La storia americana è storia di opportunità che crescono, lentamente ma continuamente. Troppi sogni sono stati abbandonati, per troppo tempo. Dobbiamo realizzare la promessa di un Paese per tutti, indipendentemente dalla razza, dall’etnia, dalla religione, dall’identità o dalla disabilità”.

In continuità con l’amministrazione Obama

Dietro queste affermazioni c’è, è evidente, una visione della politica che richiama, sia sul piano ideale che sul piano pratico, quella contenuta  nel programma avviato dalla amministrazione Obama (interrotto dalla irruzione sulla scena politica americana del ciclone Trump)e alla cui realizzazione Biden aveva partecipato. Senza trascurare i problemi delle minoranze,  e più in generale delle varie identità che fanno parte della composita società americana, questa visione pone in primo piano non le differenze ma ciò che tutti condividono, il fare parte di una impresa comune: il noi di cui parlava Obama quando diceva yes, we can.

L’America –aveva detto il primo presidente afroamericano- come più grande delle somme delle nostre ambizioni individuali, più grande di tutte le differenze di nascita o censo o partigianeria. … Ci sono alcuni -concludeva Obama- che mettono in dubbio l’ampiezza delle nostre ambizioni, che suggeriscono che il nostro sistema non può tollerare troppi piani grandiosi. … Il successo della nostra economia non dipende solo dalle dimensioni del nostro prodotto interno lordo, ma dall’ampiezza della nostra prosperità, dalla nostra capacità di ampliare le opportunità a ogni cuore volenteroso, non per beneficienza ma perché è la via più sicura verso il bene comune“.

Dunque una vittoria netta ed un programma ambizioso. “Recuperare all’America la sua anima” significava (e significa) per prima cosa liberare l’america da Trump e avviare il superamento di tutto quello che Trump ha rappresentato.

Gli esiti del trumpismo

Durante il suo mandato, Donald Trump  ha seriamente messo in pericolo alcuni tratti essenziali della nazione americana: il suo essere cosmopolita, multirazziale e democratica. Oltre l’impronta autoritaria che ha voluto dare al suo modo di gestire la cosa pubblica e le manifestazioni di disprezzo per le leggi e per le istituzioni, ciò che ha prodotto più danni è il fatto che Trump non ha mai perso occasione per gettare benzina sul fuoco delle divisioni.

Gli episodi che vengono in mente sono tanti.
Uno dei più noti si è verificato nel primo anno del suo mandato, nella città di Charlottesville, in Virginia. Dopo un raduno di suprematisti bianchi, neonazisti e sostenitori del Ku Klux Klan vi era stata una contromanifestazione di protesta alla quale sono seguiti alcuni scontri tra i due gruppi. Un suprematista si è lanciato con un’auto contro i manifestanti antirazzisti provocando molti feriti e un morto. Trump ha rilasciato una dichiarazione nella quale ha affermato  che “c’erano persone perbene in entrambi i gruppi”.
Un altro eclatante episodio, nell’ultimo anno del mandato. A un gruppo di quattro deputate democratiche di colore (Ocasio-Cortez, Omar, Presley e Tlaib) Trump ha detto che se non amavano quello che vedevano negli Stati Uniti, soprattutto nel suo stile di governo, erano libere di “tornare nei loro Paesi”.

Due cose, soprattutto, danno il segno dei guasti prodotti e destano molta preoccupazione. Innanzitutto il fatto che qualunque cosa Trump abbia fatto o detto i repubblicani che siedono in parlamento lo hanno sempre sostenuto. La seconda cosa è l’esistenza di una enorme massa di seguaci che hanno per il loro capo una sorta di venerazione e  sono disposti a seguirlo in qualunque avventura (in alcune città gruppi di seguaci hanno presidiato i seggi elettorali con i fucili in mano e ancora oggi fanno manifestazioni per sostenere che è Trump il vero vincitore e lo incitano a continuare la battaglia per la vittoria rubata). Sono gli abitanti dei borghi rurali degli stati del sud e quelli delle cittadine della Rust Belt, la cintura industriale del nord est piegata dall’onda lunga della grande recessione economica del 2008, i forgotten men cui Trump ha fatto promesse di “liberazione” dalla classe politica democratica additata come la vera responsabile della loro condizione di precarietà ed incertezza,  la “palude” nella quale sono annegati i loro sogni di riscatto.

Biden ha pensato di realizzare il suo ambizioso programma adottando la fiilosofia  del dialogo con tutti anche con gli  avversari.

La strategia del dialogo

Questa filosofia  potrebbe rivelarsi particolarmente utile a Biden nella prima parte della sua presidenza, quando dovrà cercare di ridare equilibrio alla vita nazionale, costruire le condizioni per una ripartenza. Come scrive Stefano Pistolini su Il Foglio del 10 novembre, “Biden vorrà pacificare, restituire misura, dimensione e obiettivi alla vita dei connazionali, ricucendo il disegno di un’ America non più stuzzicata da proclami incendiari e velleitarismi pericolosi, ma di nuovo associata ad alcune certezze svanite: un’assistenza sanitaria perlomeno accettabile per tutti, una dimensione occupazionale che esca dall’emergenza di pari passo a una normalità esistenziale garantita dalla rimozione dell’epidemia che ha colpito la nazione in un modo troppo simbolico per non essere colto – come la febbre che colpisce gli uomini quando l’eccitazione dei sensi e il mito di un passato selvaggio s’impadroniscono della psiche nazionale”.

E d’altra parte quella del dialogo con tutti, anche con gli avversari, si prospetta comunque come una via obbligata. Biden, così sembra, non avrà il controllo del Senato e fino alle elezioni di medio termine, nel 2022, la situazione non potrà essere modificata. Per far passare alcuni provvedimenti sarà costretto a chiedere la collaborazione dei repubblicani.

Il programma di Biden e la filosofia che lo anima dovrebbero essere considerati, e per molti è così, alla base del successo elettorale e il presupposto per la possibilità di ricucire il tessuto sociale lacerato anche a causa del trumpismo.

Ma non è così per tutti.

L’insofferenza dei radicali

Nel suo stesso partito alcuni (l’ala di sinistra radicale) ritengono che la campagna elettorale sia stata impostata male da Biden. Che la radicalità del trumpismo (nei contenuti e nelle forme) si debba combattere contrapponendo altrettanta radicalità (nei contenuti e nelle forme). Mentre il “canuto” Biden con il suo moderatismo, il suo innato perbenismo, intento alla ricerca più del confronto che dello scontro, non riscaldava gli animi, non entusiasmava.  Al suo stile signorile e pacato è stato dato l’appellativo di “vintage” (roba vecchia) non molto diversamente da come ha fatto Trump che gli ha appiccicato il nomignolo di Sleepy Joe (ovvero l’addormentato).  Alcuni arrivano a dire che con i candidati rassicuranti, moderati e sciapi imposti dall’establishment del Partito democratico, si è rischiato di perdere.
Non è stato così.

Ora Bernie Sanders e soprattutto Alexandria  Ocasio-Cortez e i Justice Democrats (il gruppo di sinistra del Partito democratico che ha sostenuto e fatto eleggere Ocasio-Cortez al Parlamento) per far pesare negli equilibri interni al partito il loro apporto all’esito delle elezioni (che pure c’è stato, ma non sappiamo in che misura determinante) dicono che Biden ha vinto solo grazie a loro, all’impegno che hanno profuso per riportare all’interno del perimetro democratico alcuni stati decisivi come il Wisconsin, l’Ohio, il Michigan, il Minnesota e la Pennsylvania. La cintura industriale degli Usa, tradizionalmente democratica ma che nel 2016 aveva votato per Trump.  Sono Stati nei quali una grossa parte dell’elettorato è costituita da quella che una volta si chiamava working class (oggi si fa più spesso riferimento ad essa con l’espressione middle class). Ovvero gli americani che più di altri, come abbiamo già evidenziato, hanno sentito il peso della crisi economica del 2007-8. Gli stessi  forgotten men che hanno costituito (e ancora costituiscono) il principale bacino elettorale del trumpismo. Proprio i Justice Democrats hanno reso pubblico il loro desiderio di vedere alcuni membri dell’ala sinistra in posti importanti della nuova Amministrazione (Sanders al dipartimento del Lavoro e Warren al Tesoro). E anche A. O. C. si è fatta sentire, precisando che lei di abbracciare i (nemici) repubblicani non ci pensa neanche.

Il nodo del rapporto con la classe media

C’è del vero nella narrazione dei democratici radicali. Nel senso che è assolutamente necessario per il partito democratico, se vorrà vincer le sfide elettorali e realizzare i suoi ideali di giustizia sociale, impegnarsi a ricostruire un rapporto con la middle class.
È una faccenda che richiede tempi lunghi, perché implica invertire un processo che ha origini piuttosto remote, cioè da quando la lenta e progressiva deindustrializzazione ha determinato il deterioramento del tenore di vita di milioni di cittadini, ovverosia dagli anni novanta.
Ma se dopo aver sconfitto Trump  si vuole sconfiggere anche il trumpismo, questo è un nodo ineludibile. Biden conosce il problema  e lo ha espressamente messo in primo piano durante il suo discorso della vittoria: “Ho corso per questa carica per … ricostruire il ceto medio, la spina dorsale della nazione”. Ciò ha come presupposto, naturalmente, il cambiamento delle condizioni di vita, materiali e sociali, che hanno favorito il trumpismo.

È un problema di cui la coppia Obama-Biden aveva già piena consapevolezza, come mostra il fatto che quella Amministrazione aveva avviato una politica economica espansiva di portata eccezionale, per favorire la ripresa degli investimenti nell’industria da un lato e, dall’altro per migliorare la qualità del welfare, in particolare l’assistenza sanitaria (noi  italiani abbiamo avuto qualche sentore di questo processo quando nel 2011 fu realizzato il salvataggio dell’industria automobilistica Chrysler, nel Michigan, coinvolgendo anche la nostra industria di automobili Fiat). Donald Trump, da politico populista e demagogo, è stato abile nel saper cogliere la vastità e la portata della situazioni di disagio che si era venuta a creare ed ha soffiato sul fuoco del risentimento popolare per guadagnare consensi. E (sia pure di un soffio) ha conseguito la vittoria nelle elezioni  del 2016.

Gli orfani di Trump

Si sente dire a volte che Trump è in qualche modo un interprete del disagio della classe media.

Cosa hanno prodotto gli anni della presidenza Trump lo abbiamo già detto. Ma vale la pena rimarcare (checché ne dicano  gli orfani di Trump, e sono tanti anche a sinistra) che la sua politica è stata piena di fallimenti e quasi sempre alle mirabolanti promesse non sono seguiti fatti concreti. L’ultimo capitolo dei fallimenti dell’amministrazione Trump è la disastrosa gestione della pandemia, che ha fatto degli Usa il primo paese al mondo per numero di contagiati e di decessi (e gli strati sociali più colpiti appartengono proprio alla classe media).
Per tutto ciò, all’appuntamento del 3 novembre 2020 per il rinnovo della carica presidenziale la propaganda di Trump è risultata meno credibile e una parte dei forgotten men gli ha voltato le spalle. Come molto spesso capita nei populismi.

Alcuni osservatori (e non solo di orientamento conservatore) dicono che nei  4 anni di amministrazione Trump comunque l’economia è andata bene e anche l’occupazione è cresciuta. La realtà è che non si tratta di suoi successi, ma di effetti di lugo periodo delle misure avviate da Obama. È di questo parere ad esempio il giornalista Moisés Naim, già direttore della rivista Foreign Policy:

Indubbiamente alcuni tagli alle tasse fatti da Trump hanno reso l’economia più dinamica. Ma la ripresa dell’occupazione viene dai tempi di Obama. Il punto più importante del programma economico di Trump, però, era il ritorno negli Stati Uniti di una forza manifatturiera che era stata delocalizzata. E ciò non è riuscito. Anzi, le guerre commerciali con la Cina hanno creato danni gravi ad alcuni stati agricoli che vi esportavano. Neanche è stata mantenuta la promessa di un grande investimento per ammodernare una rete di infrastrutture ormai obsoleta, e di cui effettivamente gli Stati Uniti avrebbero un grande bisogno”.

Tutto questo  per dire che la sconfitta di Trump (come del resto la sua precedente vittoria) non è avvenuta per caso.

Conclusioni

Trump ha perso perché non è vero che si possa sempre vincere cavalcando il malessere della gente e soprattutto perché la strategia elettorale di Biden è stata una buona strategia: un’ampia coalizione, “la più vasta e diversa della storia”, perché gli obiettivi di fermare la grave minaccia alla democrazia costituita dal trumpismo e porre mano ai problemi economici e sociali che travagliano il Paese non potranno essere mancati.

Se l’impegno della sinistra radicale (da Sanders alla Ocasio) è stato utile per riconquistare consensi presso la classe media è un fatto positivo ed è anche giusto metterlo in evidenza. Ma questo non è avvenuto fuori o nonostante la strategia elettorale del partito democratico (voluta da Joe Biden e Kamala Harris). L’apporto dei radicali è stato possibile perché faceva parte di quella strategia.  

Forse la Ocasio-Cortez e il gruppo radicale dei Justice Democrats non riescono a comprendere fino in fondo la portata della proposta politica della coppia Biden-Harris, la spinta trasformatrice che essa può imprimere alla società americana (e per riflesso al resto delle democrazie occidentali). Se ci rifletteranno si renderanno conto che è una proposta profondamente radicale perché solo facendo appello a ciò che si condivide (il bene comune a cui si riferiva Obama) è poi possibile mettere in funzione le virtù della moderazione e del compromesso (il sale stesso della democrazia) per affrontare alla radice, in modo razionale, le questioni che hanno portato sull’orlo dell’abisso.
Nessun altro approccio ha buone possibilità di successo (copyright Mark Lilla).

La democrazia americana sta mostrando di essere una democrazia resiliente. È riuscita a resistere agli attacchi del populismo e respingerlo, ha guardato il baratro ed è riuscita a fare un passo indietro, e ora incomincia a cercare al proprio interno, nel perimetro della propria storia, le risorse ideali e materiali per andare oltre.

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