DATI CENSIS
Metà degli italiani è favorevole alla introduzione della pena di morte

Dall’analisi del Censis 2020 risulta che quasi la metà degli italiani (43,7%) è favorevole all’introduzione della pena di morte per coloro che commettono reati particolarmente orrendi. La percentuale di sostenitori è ancora più alta tra i 18-34 anni, ed è questo il dato più preoccupante.

Disorientamento e paura causati dalla pandemia

Nel generale clima di paura innescato dalla pandemia, dalla crisi economica, dai cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e delle attività sociali, si è diffuso tra le nuove generazioni un disorientamento generale, che investe anche principi e valori che sembravano oramai consolidati. La rimessa in discussione dell’abolizione della pena di morte rappresenta emblematicamente questo clima di incertezze profonde.

Le scelte dettate dalla prudenza e dal timore delle conseguenze sono e sono state spesso indispensabili all’umanità, nella sua lunga vicenda evolutiva, per poter sopravvivere, perché sono nate e nascono dalle nostre esperienze e da quello che le generazioni precedenti ci hanno trasmesso in merito ai pericoli della vita. Solo qualche esempio, fumare sdraiati a letto, ascoltare musica da una radio appoggiata al bordo della vasca da bagno in cui siamo immersi, usare il cellulare quando si guida un auto, per limitarci ad alcuni comportamenti da evitare e di cui avere timore.

Quando invece la paura è priva del retroterra storico ed esperienziale, che la giustifica, quando si sviluppa senza un confronto con la realtà complessa delle diverse opzioni della vita, finisce con l’essere soltanto l’apparente soluzione del problema ed inoltre, nella sua irrazionalità, moltiplicatrice degli effetti che si vorrebbero evitare. Il caso della scelta della pena di morte ne rappresenta un esempio.

Il terreno per un dialogo con i fautori della pena di morte

Proponiamo una breve sintesi di concetti e temi da usare in un dialogo con i fautori della pena di morte, senza dover ricorrere a principi religiosi (per esempio la condanna assoluta da parte di alcune Chiese cristiane – i valdesi in primis fin dal 1200 – o il pronunciamento di papa Francesco in merito, attuato attraverso il cambiamento dello stesso Catechismo, cioè l’articolo 2267, il quale ha modificato la dottrina cattolica ed ha tolto le precedenti giustificazioni alla pena di morte).

Il terreno comune con i nostri interlocutori potrebbe essere lo stabilire che la pena non sia inflitta senza alcuno scopo, ma abbia diversi fini ridotti convenientemente ai seguenti quattro: la riabilitazione del reo, la difesa dal criminale, la deterrenza dal crimine e la retribuzione dell’offeso. La domanda centrale da porsi diventa: la pena di morte costituisce il mezzo più appropriato per conseguire questi obiettivi ed in che misura ognuno di essi viene raggiunto, totalmente, parzialmente, per nulla?

Appunti per una riflessione sugli obiettivi

Riabilitazione. La pena capitale non reintegra il criminale nella società, piuttosto lo esclude da qualunque possibilità di riabilitazione. Si obietta che criminali come Hitler oppure come i serial killer sono irrimediabilmente irrecuperabili. Può darsi, ma quanto più il delitto commesso da costoro è atroce tanto più essi sono soggetti da sottoporre ad esami e cure psichiatrici per l’incapacità di intendere rivelata dalle loro azioni. Soltanto menti totalmente soggette alla propria ed esclusiva visione (violenta e sanguinaria) del mondo, che elimina la comunicazione dialettica con la realtà esistente, possono consentire che un essere umano si renda autore dei delitti più efferati. Pensiamo al terrorismo politico o religioso, riflettiamo su come l’ideologia abbia privato la persona della sua autonomia di giudizio al punto tale da farle accettare la crudeltà estrema di infliggere ad altri la morte. Inoltre, chi fosse totalmente irrecuperabile non sarebbe libero di scegliere e quindi la stessa pena di morte sarebbe arbitraria perché inflitta ad un soggetto non in grado di decidere altrimenti.

Difesa dal criminale. La pena capitale è evidentemente una modalità sicura per impedire che la persona commetta ulteriori reati, ed in questo modo essa protegge la società. Nel mondo moderno, tuttavia, i miglioramenti del sistema penale hanno permesso che sia estremamente raro il dover ricorrere all’esecuzione come all’unico mezzo efficiente per la protezione sociale. Oggi i sistemi detentivi in Europa e nei paesi avanzati garantiscono la totale e definitiva separazione del reo dalla società. E non dimentichiamoci che la miglior difesa dal crimine consiste nella prevenzione dello stesso in termini educativi, economici, sociali più vasti (tema che tuttavia non possiamo sviluppare in questa sede).

Deterrenza dal crimine. Le esecuzioni, specialmente dove sono dolorose, umilianti e pubbliche, possono creare un sentimento di orrore che tratterrebbe altri dal cedere alla tentazione di commettere simili crimini. Queste pratiche nondimeno fanno arretrare la soglia di civiltà di un intero popolo (pensate alla forca o alla ghigliottina, in una piazza, sotto gli occhi di tutti, bimbi compresi, oppure ad una esecuzione in diretta televisiva) e contribuiscono ad un peggioramento generale delle relazioni tra gli uomini, perché la modalità di infliggere la morte, anche se giustificata dalla legge dello Stato, comporta inevitabilmente una percezione ridotta del valore della vita umana, in maniera direttamente proporzionale al livello di esibizione del momento della morte. Menzioniamo, fra i tanti esempi storici, un fenomeno ben noto, l’assuefazione alla morte violenta di gladiatori o di condannati, nei circhi dell’antica Roma. Le analisi sociologiche sull’effetto deterrente della pena di morte fino ad oggi non consentono di esprimere un giudizio e restano poco affidabili. Ci sembra invece più importante ricordare la massima morale alla base dell’etica kantiana e di ogni etica moderna: “Nessun essere umano può venire considerato come un mezzo ma solo come fine”. Pensare che la morte inflitta ad un reo possa essere un momento “educativo” per la collettività significa adottare un rapporto strumentale nei confronti dell’esistenza dell’uomo e aprire la strada alle peggiori aberrazioni future.

Retribuzione dell’offeso. In linea di principio, la colpa richiede una punizione. Più grave è l’offesa, più severa dovrebbe essere la pena. Il delitto più grave è il togliere la vita ad un uomo, la vita è infatti unica ed irripetibile ed è quindi talmente importante – nella sua esclusività – che non ha alcun prezzo. Proprio l’impossibilità di stabilire un prezzo per la vita umana impedisce di avere una retribuzione adeguata in caso di omicidio: neppure la morte del colpevole risarcisce in alcun modo la vittima.  Il fine retributivo della pena di morte sparisce e resta un atto di semplice vendetta, che è uno dei risultati della pena di morte, cioè acuire il desiderio di ritorsione, non l’autentico impegno per la giustizia.

Il nostro punto di vista in breve

Possiamo concludere che la pena di morte non consente la riabilitazione del condannato. È un mezzo oggi non più necessario per difendere la società. Che possa servire a scoraggiare altri dal commettere simili crimini è una ipotesi largamente improbabile e soprattutto moralmente deprecabile, oltre al produrre terribili effetti collaterali. Infine il valore retributivo della pena di morte non sussiste.

Vi sarebbe ancora dell’altro da dire. Numerosi autori che hanno riflettuto sulla pena di morte hanno documentato che essa, oltre a essere giuridicamente e moralmente sbagliata, può essere anche fonte di un ulteriore crimine: vi è la possibilità che il condannato sia innocente. Già comunque gli elementi indicati dovrebbero consentire non tanto di far cambiare il punto di vista favorevole alla pena di morte quanto almeno inficiarne il senso di certezza e l’intransigenza.

La foto in evidenza è tratta da affariitaliani.it

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