Vivere di precise parole

In un recente post su Linkiesta Guia Soncini dice che da un pezzo “abbiamo smesso di vivere di precise parole”, riferendosi ad una condizione sempre più diffusa, quella di non conoscere le precise parole con cui dire ciò che vogliamo.
Le rubiamo l’espressione estendendone il campo di applicazione: non solo alla scarsa conoscenza della lingua ma, più in generale, alla scarsa conoscenza e considerazione di fatti, situazioni e persino principi sui quali riteniamo utile dire la nostra.

Negli ultimi mesi molti, soprattutto giovani, hanno manifestato, nelle piazze come sui social, indignazione (sacrosanta) per le numerose vittime, specie donne e bambini, provocate tra la popolazione palestinese dall’invasione della striscia di Gaza da parte dell’esercito di Israele.

Condividiamo la condanna per i bombardamenti indiscriminati. Ci saremmo comunque  aspettati che quegli stessi giovani, almeno una volta, fossero scesi  tutti quanti in piazza per manifestare una altrettanto giusta indignazione per le numerose vittime civili, tra cui donne e bambini, provocate tra la popolazione israeliana da parte dei militanti di Hamas.
Sarebbe stata una occasione per dimostrare , da parte dei nostri giovani, di essere ancora in grado di vivere di parole precise.

In che senso? Lo spieghiamo con esempi concreti.

Quando i giovani pacifisti durante le manifestazioni ripetono lo slogan “dal fiume al mare” sanno che quelle parole in quell’area geografica hanno un significato preciso, che non evoca certo la pace? Quello slogan sintetizza un concetto che è caro a tutti gli integralisti, sia palestinesi che israeliani, ed è questo: qui dobbiamo starci solo noi, morte a tutti gli altri. Quello slogan incita a bandire qualsiasi idea di convivenza pacifica tra i due popoli, mentre la storia ci dice che hanno entrambi diritto di abitare quei luoghi.

Hamas e Netanyahu condividono quello slogan. Stando ad una dichiarazione di Ehud Barak (ex generale ed ex primo ministro d’Israele) l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu ha  messo in atto una politica volta a rafforzare Hamas e indebolire la rivale Autorità Palestinese proprio per minare ogni possibilità di una soluzione a due Stati. Quello slogan non è una frase eroica, è la rivendicazione del diritto ad uccidere.

Quando i nostri ragazzi inneggiano ad Hamas, sanno a cosa inneggiano?
Hamas è una filiazione dei Fratelli musulmani, quelli che sono andati al potere in Iran con la rivoluzione khomeinista del ’79, istaurando una feroce dittatura misogena e omofoba (che in molti quando eravamo giovani rivoluzionari, vittime di parole imprecise, abbiamo spalleggiato). È una organizzazione di fanatici criminali che il 7 Ottobre scorso ha dichiarato guerra allo stato di Israele dando un saggio di quello che sono capaci di fare compiendo crimini inenarrabili su circa mille e cinquecento persone, uomini donne e bambini.
I giovani che scendono in piazza sventolando la bandiera della pace e insieme la bandiera di Hamas si rendono conto di essere in palese contraddizione?

Forse, quando i nostri ragazzi usano la parola “genocidio” per stigmatizzare quanto sta accadendo a Gaza, non si rendono conto che stanno facendo un uso improprio di una parola sulla quale, prima di pronunciarla, bisognerebbe riflettere a lungo. È giusto condannare il modo in cui Israele ha condotto e sta conducendo l’invasione della striscia di Gaza, i bombardamenti indiscriminati che stanno producendo un massacro di bambini. Non è giusto parlare di genocidio perché non è la verità … 

Tutto questo ci fa pensare che molte delle manifestazioni cui abbiamo assistito da cinque mesi a questa parte non siano state condotte in buona fede, cioè  per il motivo che si prova orrore per la sorte di tanti bambini. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha prodotto e continua a produrre la morte di tanti piccoli innocenti e molti di essi vengono strappati alle loro famiglie e deportati in Russia, ma manifestazioni di protesta non se ne vedono; in Sudan (informa il NYT) dall’aprile del 2023, quando è riscoppiata la guerra civile, 3 milioni di bambini sono stati evacuati e 700 mila di loro vivono una grave condizione di malnutrizione. L’Unicef parla di una “ondata di atrocità” nei loro confronti, ma manifestazioni di protesta non se ne vedono.

Perciò è legittimo pensare che l’attenzione su ciò che succede a Gaza che, ripetiamo, non è accettabile e va condannato senza esitazione, sia (come la definisce Nicholas Kristof sul NYT) un esempio di indignazione selettiva. Ci sembra di capire che ciò che muove molti manifestanti non sia tanto il dolore per le vittime ma l’odio politico verso l’Occidente, il capitalismo e cose simili. E non solo questo: anche tanto razzismo, nella forma più odiosa e vergognosa dell’antisemitismo (un esempio di come spesso tra estrema destra ed estrema sinistra non passa grande differenza).

A volte si sentono gli ipocriti (che fino a un minuto prima hanno in tutto e per tutto sostenuto gli indignati selettivi) affermare: va beh, non vogliamo chiamarlo genocidio ma … .
No, così non funziona. Perché le parole sono pietre (copyright Primo Levi). Scagliare la pietra del genocidio come accusa contro il popolo di Israele non è una cosa che si può fare con nonchalance. Farlo ha il significato di voler macchiare dell’infamia più ignobile coloro che quella infamia l’hanno subita. Vuol dire voler chiudere i conti con la storia scegliendo di stare dalla parte sbagliata.

Quando da un palco l’oratore di turno dice che il 7 ottobre “ha insegnato a tutto il mondo il significato di resistenza”. E quando poi, tra i giovani manifestanti, qualcuno lancia slogan antisemiti (distruzione di Israele, caccia all’ebreo e simili) e gli altri tollerano che ciò avvenga allora cogliamo un segnale preciso che questa abitudine moderna, anzi postmoderna,  di  vivere di imprecise parole, questo offuscamento dei confini tra il vero e il falso, sta cominciando a produrre frutti nefasti.

Immagine in evidenza di Tristan Sosteric su Unsplash

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