ELEZIONI POLITICHE 2022
L’Italia ce la farà, anche questa volta (speriamo) /1

“Il prossimo governo, qualunque sia il suo colore politico, riuscirà a superare le difficoltà che oggi appaiono insormontabili, come le abbiamo superate noi l’anno scorso. L’Italia ce la farà anche questa volta”.

Naturalmente ci auguriamo che il pronostico pronunciato da Mario Draghi al meeting di Rimini si avveri. Ma non condividiamo l’interpretazione di chi ha visto (ha voluto vedere) nel discorso di Draghi una sorta di  incondizionata attestazione di fiducia nelle capacità della classe politica italiana (tanto meno nei politici di estrema destra, come la leader di FdI, che ha sempre giudicato quello guidato da Draghi un governo inadeguato). Le condizioni, sulle quali ci soffermeremo nella seconda parte di questo nostro contributo, il presidente Draghi le ha invece indicate, eccome!

Certo, l’affermazione di Draghi è quella di uno statista che per principio cerca di confortare e dare speranza al popolo.
Ma se il popolo, prima di recarsi alle urne, leggesse con un minimo di attenzione i programmi presentati dalle forze politiche alle quali viene attribuito il peso maggiore (e quindi una maggiore possibilità di successo elettorale) e osservasse con una certa attenzione come tali forze hanno impostato la campagna elettorale, si renderebbe conto che il pronostico pronunciato da Draghi non è scontato che si realizzi.

Chi volesse consultare i programmi ai quali stiamo facendo riferimento può utilizzare  i seguenti link: Il programma del Centrodestra; il programma del Pd; il programma del M5s.
Qui ci limitiamo a svolgere alcune brevi considerazioni su aspetti che ci sembra siano comuni a tutti e tre i programmi considerati.

La prima è che ogni programma è costituito da una lunga lista di mirabolanti promesse (per rendersene conto, se non si ha il tempo e/o la voglia di leggere i testi originali, può essere utile leggere la sintesi di Alessandro Troncino sul Corriere della Sera del 22 Agosto). Ma la cosa ancor più grave è che mai si incontrano chiare indicazioni sulle priorità. In altri termini, i programmi che abbiamo preso in considerazione mancano di visione strategica, di ragionamenti che in qualche modo giustifichino questa o quella scelta di intervento. Le indicazioni programmatiche quando ci sono sono vaghe e/o fumose.  Tanto per fare un esempio, il tema della scuola nel programma del Pd. Si parla di: allineare gli stipendi degli insegnanti alla media europea; garantire la progressiva gratuità dei servizi educativi 0-3 anni per i nuclei familiari a basso ISEE; costruzione di un Fondo nazionale per i viaggi-studio, le gite scolastiche, il tempo libero nel doposcuola e l’acquisto di attrezzature sportive e strumenti musicali; supportare la creazione di ambienti di apprendimento sensibili, accessibili, sicuri; garantire la piena gratuità del trasporto pubblico locale per le famiglie a reddito medio e basso; gratuità dei libri di testo; accesso universale e gratuito di bambine e bambini alle mense scolastiche; investire nell’aumento dei docenti di ruolo di sostegno; estensione del tempo pieno; lavorare affinché le scuole siano sempre più luoghi sicuri, belli, aperti tutto il giorno, vere e proprie palestre di cittadinanza.

Tutte cose giuste e condivisibili, naturalmente. Ma, come leggiamo in un commento sulla rivista online Hic Rodus, “non emerge un modello di scuola; non si parla, per esempio, di formazione e valutazione degli insegnanti, di merito, di programmi, di collegamenti fra scuola e territorio; la scuola è quella lì, quella che abbiamo già (che funziona poco e male) ma con qualche soldo in più agli insegnanti e qualche sostegno marginale”.


 L’’esempio più eclatante di questa mancanza di visione strategica (o comunque di non esplicitazione della medesima) lo abbiamo incontrato nel programma del Centrodestra, che con la proposta dell’elezione diretta del capo dello stato (che sta particolarmente a cuore ai Fratelli d’Italia) intende introdurre un profondo cambiamento dell’assetto politico istituzionale della nostra Repubblica. Ma non dedica neppure un breve paragrafo per spiegare per quale ragione oggi bisogna dare priorità a questo tema e come intende realizzare un cambiamento che si prospetta epocale.

La seconda considerazione che viene da fare è che in questi programmi, tutti indistintamente, agli interventi proposti non si accompagna mai una indicazione dei costi previsti per l’erario, neppure in via di approssimazione. Ad esempio, tutti i programmi prevedono importanti interventi sull’asse previdenziale-assistenziale : stop alla legge Fornero e passaggio a quota 41 (su cui punta la Lega e, tra l’altro, è molto gradita anche ai sindacati); aumento delle pensioni e un livello di mille euro per le pensioni minime (su cui insiste Berlusconi); rafforzamento del reddito di cittadinanza (per il M5s) e comunque un suo mantenimento (per il Pd).
Come ha fatto notare Il Sole 24 Ore, l’interesse della politica per queste tipologie di interventi non deve stupire, “perché in questo caso il bacino di riferimento oscilla attorno agli 8 milioni di elettori. Ma ha anche una controindicazione, che viene accuratamente tenuta nascosta: il consistente appesantimento della spesa pubblica”, che sarebbe da un minimo di 4 a un massimo di 10 miliardi all’anno per la quota 41, da un  minimo di 10 a un massimo di 20 per le pensioni minime a 1000 euro e di 10 miliardi per mantenere il reddito di cittadinanza.

Quello di non indicare, neanche in termini approssimativi, i costi delle promesse elettorali non è un fatto casuale, è una modalità che tutti usano per esimersi dall’onere di dover affrontare il tasto dolente ma fondamentale di dove si prendono i soldi.

Una terza considerazione è, appunto,  che mai viene indicato dove si intende prendere i soldi per finanziare le mirabolanti promesse. Lo stato, si sa, i soldi li prende dalle tasse, ma nessuno dice di volerle aumentare. E allora? Ecco che nei programmi  in questione si sorvola sull’argomento e segretamente si pensa che al momento opportuno eventualmente si farà ricorso al fatidico “scostamento di bilancio” (che vuol dire fare altro debito). Una evocazione che dovrebbe essere assente dalla mente di chi è chiamato a governare un Paese come il nostro che ha  il debito pubblico tra i più alti al mondo.

L’impressione complessiva che si ricava è che si ripropone un vecchio vizio della politica italiana:  si fanno un mucchio di promesse per prendere voti ma si sa che poi gran parte di quelle promesse resteranno lettera morta (del resto, se si provasse realmente ad attuarle la prospettiva sicura sarebbe la bancarotta). È evidente che si tratta di una impostazione sbagliata. Lo è in modo particolare oggi perché l’attuale situazione richiede alla classe politica la capacità di riuscire a superare difficoltà “che appaiono insormontabili”. Non siamo di fronte alla normale amministrazione, siamo di fronte alla più grave crisi energetica dal dopoguerra, che richiederà l’impiego di risorse intellettuali ed economiche enormi. Siamo di fronte ad una crisi climatica che probabilmente metterà totalmente in discussione i nostri abituali modi di vivere. Perciò abbiamo bisogno prima di tutto di visioni, di strategie complesse  che abbiano due punto fermi comuni: chiarezza di obiettivi e compatibilità con le risorse disponibili.

Il permanere del vecchio vizio di cui sopra fa pensare che l’esperienza del governo di unità nazionale, che certamente ha fato un gran bene al Paese, non è servita a sedimentare nei partiti italiani quello “spirito repubblicano” che ha animato l’esecutivo guidato da Draghi. Non è servita a debellare quello che alcuni commentatori hanno chiamato “l’ossimoro della politica italiana” ovvero l’arte di sostenere cose tra loro incompatibili: tutti hanno riconosciuto che il governo Draghi ha operato bene, ha salvato il Paese, ma si è cercato di mandarlo via prima possibile (e pensare che mancavano solo sei mesi alla fine naturale della legislatura); tutti hanno identificato in Mario Draghi il politico di maggiore prestigioso di cui disponiamo ma non gli hanno votato la fiducia.

Non c’è da meravigliarsi, quindi, se la campagna elettorale alla quale stiamo assistendo sia una campagna vecchio stile: invece del confronto sui problemi lo scontro preconcetto, invece del dialogo la demonizzazione dell’avversario, il noi contro loro, o di qua o di là. Il bipolarismo (destra – sinistra) esasperato. Senza avvedersi che il bipolarismo, oggi, mal si adatta ad affrontare “le difficoltà che appaiono insormontabili”. Siamo alla campagna elettorale più novecentesca della storia.

Pienamente condivisibile il commento di Mario Lavia su Linkiesta del 15 Agosto scorso:

“Di tutto si parla tranne che delle grandi emergenze del pianeta e del nostro Paese: diciamo la verità, è sempre un po’ così ma stavolta di più. Clima, lavoro, tecnologia, energia, ricerca: temi che nessuno riesce a declinare in modo popolare, eppure la politica dovrebbe fare proprio questo, ma il problema è che i gruppi dirigenti dei partiti sono vecchi, d’età media e soprattutto di testa, conoscono poco o nulla delle inquietudini contemporanee, anche i più giovani sono stati allevati a far carriera dentro le categorie del secolo scorso e dunque sanno di tutto un po’ ma niente di specifico. Come e peggio dei giornalisti (ecco, così abbiamo già risposto all’obiezione). …
Irrompe il Novecento di quando noi eravamo giovani, contro i comunisti o contro la Democrazia Cristiana, e oggi contro il Pd o contro la Meloni. …
E ovviamente si gioca a chi offre di più, sulla flat tax, sui soldi agli insegnanti, sul reddito minimo e quant’altro …
L’impressione dunque è quella di un castello incantato come il sanatorio di Thomas Mann che alza i ponti levatoi nei confronti della società e della modernità per giocarsi la vita a testa o croce nel bailamme autoreferenziale di una mortale lotta di potere. Nel Novecento almeno c’era più cuore”.

L’immagine in evidenza è tratta da: ilsussidiario.net
Le altre immagini sono tratte, nell’ordine, da: comunicazione.iusve.it; meetingrimini.com; affaritaliani.it; it.wikipedia.com

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