La grazia della prudenza e dell’obbedienza

Finora, nella vicenda del contrasto alla pandemia gli italiani sono stati disciplinati.
Diciamo la verità: erano partiti piuttosto male. Ricordiamo tutti i primi giorni del mese di marzo quando, nonostante l’allarme fosse già scattato, alcune regioni avessero già chiuso le scuole e i telegiornali raccomandavano di evitare assembramenti, molta gente affollava le spiagge della Liguria e non solo, i bar, i ristoranti ecc.). Ma poi, quando è stato percepito chiaramente che non si trattava di un problema da poco il film è cambiato: hanno rispettato rigorosamente le regole di un lockdown che da noi è stato particolarmente rigido. Hanno ricevuto “la grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni” (come direbbe papa Francesco) o più semplicemente e laicamente hanno mostrato di possedere senso civico, più di quanto ne viene loro solitamente attribuito.
Insomma, possiamo dire che sono partiti male ma sono arrivati bene.

Non si può dire la stessa cosa di coloro che, a vari livelli, ricoprono cariche di responsabilità e di governo. Anche questi sono partiti male ma strada facendo non sono migliorati gran che.
Che siano partiti male è una cosa ormai chiara a tutti: superficialità (ad esempio nel modo in cui sono stati chiusi i voli dalla Cina); contraddittorietà delle indicazioni che venivano fornite (ad esempio, prima è stato detto che le mascherine non servivano, poi sono stare rese obbligatorie ma solo per il personale sanitario e alla fine sono state dichiarate indispensabili per tutti); incapacità organizzative, che hanno causato (ad esempio) ingiustificabili ritardi negli approvvigionamenti dei dispositivi di sicurezza (dopo 40 giorni dalla dichiarazione dello stato di emergenza le strutture sanitarie disponevano di pochi tamponi e le indispensabili mascherine erano praticamente introvabili); sottovalutazione dei rischi cui sarebbero andati incontro i più deboli, come gli anziani nelle case di riposo; nessun piano per utilizzare la medicina di base come primo presidio per la cura dei malati; assenza di efficaci strategie di tracciamento dei possibili focolai (sui quali spesso si è intervenuti quando ormai erano diventati incendi e per il cui spegnimento si è reso necessario un enorme dispiegamento di risorse e pagando un tributo molto elevato in termini di vite umane).

Mentre avveniva tutto questo, si realizzava anche ciò che il sociologo Giuseppe De Rita, in un articolo sul Foglio del 24 aprile, ha definito la ‘statalizzazione del fronteggiamento dell’emergenza’: ”Tutto è stato ricondotto alla macchina statale, sia che si parli della tradizionale macchina della pubblica amministrazione (si pensi  al peso di ministeri importanti come quello della Sanità o quello dell’Interno), sia che si parli di organizzazioni di interventi specializzati (la Protezione  civile e l’Istituto superiore si sanità), sia che si parli di strutture più o meno temporanee di supporto tecnico (i commissari e le task force)”. “Quasi che non vi siano – prosegue De Rita –  altri soggetti da associare al darsi cura dell’emergenza”. “E in più, lo stato è arrivato a regolare con durezza molte delicate sfere di comportamento, individuale e collettivo, deviando  da una tradizione di non intromissione nella sfera privata che durava da alcuni decenni”.

Certo, non c’è da stupirsi se, in una particolare situazione di emergenza, la necessità di prendere rapide soluzioni porti ad uno “slittamento in alto” del potere decisionale . Ma è lecito attendersi che questa anomalia  venga compensata dalla messa in campo di una chiara strategia per affrontare i problemi, nel caso specifico una strategia complessiva in grado di contemperare l’esigenza di contrastare la pandemia e la necessità, per tutelarne la salute, di limitare le libertà dei cittadini. Non si può dire che ciò sia avvenuto.

Appena si sono resi conto della reale complessità del problema, e soprattutto del fatto che il modo in cui stavano approcciando la lotta al virus era inadeguato, hanno enfatizzato l’unico provvedimento tra quelli messi in campo in grado di mostrare una certa efficacia nel contenimento della pandemia: tutti chiusi in casa (la scadenza del provvedimento veniva prolungata ogni 10-15 giorni e lo stesso via via rafforzato con indicazioni più restrittive). Efficace e allo stesso tempo eccessivo. Ma era il provvedimento suggerito dai 400 e passa esperti – tecnici – scienziati – consulenti che facevano (e fanno) parte dei tanti comitati e task force  che hanno ricevuto dal governo, e in particolare dal presidente del Consiglio, la delega a decidere le regole di comportamento da dettare ai cttadini per il contenimento della pandemia.

Ora, dopo circa 60 giorni di quarantena e di blocco di quasi tutte le attività produttive del Paese sta per essere avviata la cosiddetta fase due, la graduale uscita dall’emergenza (in altri termini: imparare a convivere con il virus). Ma stando alle prime dichiarazioni del governo la situazione di scarsa chiarezza e confusione già manifestatasi nella fase uno resta. Ad esempio:  si dice che molte attività produttive riapriranno ma le scuole no e gli anziani dovranno continuare a stare chiusi in casa (chi baderà ai bambini?); i trasporti pubblici potranno ripartire ma deve essere garantita la distanza di almeno un metro tra un passeggero e l’altro (quanti potranno realmente utilizzare i mezzi pubblici? Né è possibile ipotizzare una mobilità che in questa fase faccia maggiore ricorso alle due ruote, visto che i negozi di biciclette e motorini restano ancora chiusi). Per non parlare della bufera di critiche scatenata dalla norma che consente gli spostamenti  “per incontrare i congiunti”. Un bell’arbitrio da parte dello stato escludere dai rapporti da considerare necessari gli amici, i compagni, le compagne e ogni genere di affetti che non siano quelli parentali. Il capo del governo ha poi messo una mezza pezza comunicando che il termine congiunti include “anche fidanzati e affetti stabili” (sic).

Ma a parte le incongruenze riguardanti le singole disposizioni, è l’impostazione complessiva che mostra grossi limiti. E sinora è rimasta sostanzialmente immutata.
Sia sul piano delle decisioni da prendere sia sul piano della comunicazione non vi è stata e non vi è “interlocuzione” tra governo istituzioni e cittadini. De Rita fa notare che, da quando è stato dichiarato lo stato di emergenza è stata messa in moto una comunicazione “dal centro alla periferia”, “dallo stato ai cittadini” oggettivamente unilaterale (nella quale le informazioni, da quelle generali a quelle spicciole, vengono messe a disposizione da una fonte centrale (una conferenza stampa del presidente del Consiglio o una nota del comitato tecnico-scientifico o della Protezione Civile).
È la logica conseguenza di una scelta politica che è stata, come ha scritto Alessandro Barbano sul Foglio del 29 aprile, quella di “consegnare la gestione della crisi agli esperti, che sono venuti via via assumendo, senza filtro, decisioni politiche. Una visione per così dire virologica ha surrogato la responsabilità della classe dirigente del paese. Con l’effetto che è mancata una adeguata comparazione tra le misure intraprese e i prezzi da pagare. Lo slogan “prima la vita” è servito a legittimare insieme la supplenza degli scienziati e la rinuncia dei rappresentanti del popolo”.
E, dice ancora Barbano, gli esperti si sono mossi sulla base di una premessa, avallata dalla politica. Una premessa che “si fonda sulla convinzione che gli italiani siano un popolo anarchico e disobbediente alle regole. Si tratta di un pregiudizio vecchio e illiberale, e come tutti i pregiudizi privo di fondamento, ancorché radicato nel senso comune … Così sono state subito scartate una strategia del blocco parziale e una pedagogia del distanziamento sociale fondate su un principio di potenziamento dei doveri civici e di responsabilizzazione”.

La natura della crisi in atto richiederebbe invece, a nostro avviso, un diverso atteggiamento nei confronti dei cittadini, che non dovrebbero essere visti solo come destinatari di decisioni prese unilateralmente dai tecnici.

Oggi, dopo due mesi dall’inizio della pandemia, tre cose emergono con netta evidenza: la prima è che di questo virus sappiamo molto poco e quindi fino a quando non sarà disponibile (e in dosi massicce) il vaccino non ce ne libereremo. La seconda è che molto probabilmente il vaccino non sarà disponibile prima di un anno e mezzo – due. La terza è che ovviamente non possiamo stare chiusi in casa per quasi due anni.
Queste tre verità di fondo andrebbero dette con estrema chiarezza ai cittadini, ponendole a premessa di tutte le decisioni operativaìe di contrasto alla pandemia che si intende assumere. Decisioni che dovrebbero muovere dalle seguenti fondamentali preoccupazioni:
– aumentare considerevolmente l’efficienza del servizio sanitario e attrezzarlo delle dotazioni necessarie
– avere una strategia di contrasto che includa la tracciabilità e l’isolamento dei focolai
– definire regole sostenibili per la convivenza civile

Diciamoci la verità: un programma su come convivere a lungo col coronavirus può essere realizzato solo facendo perno sul senso di responsabilità dei cittadini, sulla loro capacità di rispettare le norme.
Speriamo che la preghiera di papa Francesco venga ascoltata ed esaudita. Ma consideriamo anche il fatto che il senso di respinsabilità può essere incoraggiato, dipende da come le norme vengono costruite e proposte. Quindi immaginiamo un programma che racchiuda un insieme piuttosto circoscritto di regole chiare e comprensibili a tutti.  Le misure da adottare non possono prescindere dalla indicazione di una precisa prospettiva temporale, rispettando anche il vincolo di evitare “interventi  eccessivi” nel porre limiti alle libertà individuali. Il rischio che si deve evitare è ben sintetizzato nella nota che i vescovi della Cei hanno presentato al ministro dell’interno Lamorgese: “Le limitazioni, giustificate dallo stato d’eccezione, se prolungate o non proporzionate all’evolversi della situazione epidemiologica, assumono i caratteri dell’arbitrarietà”. E questo prima o poi i cittadini lo percepiscono.

Conclusioni.
Non possiamo sentirci confortati dal fatto che non siamo i soli ad aver commesso degli errori. Far bene non vuol dire non commettere errori. Tutti possono sbagliare e con il mostro contro cui siamo chiamati a combattere c’è anche l’attenuante che si tratta di un nemico non ben identificato. Far bene vuol dire fare delle scelte sapendo che tutti i modi di affrontare la pandemia presentano dei limiti e questo comporta il rischio di vedersi imputare la responsabilità di quanto eventualmente non sarà andato bene. Finora la nostra classe dirigente ha mostrato di avere un atteggiamento “parassitario” (copyright Alessandro Barbano): nel timore di vedersi imputare la responsabilità di un dilagare del contagio ha dato una delega in bianco ai tecnici.
Le conseguenze di un tale atteggiamento sono raccontate da Ferruccio De Bortoli sul Corriere Della Sera del 19 aprile:
“Tutto questo agitarsi disordinato di task force, comitati, iniziative anche lodevoli seppur sparse, cela una paura che è persino superiore a quella del virus. La paura di scegliere, di soppesare i rischi di varia natura per il bene collettivo, guardando avanti e non al giorno per giorno da parte di chi è stato eletto o nominato per questo. Si chiama leadership.”
“Gli italiani sono disciplinati e pazienti. Hanno dato prova di straordinario senso civico. Sono consapevoli che il successo della fase due – da affrontare con tutta la gradualità e la cautela necessarie – dipenderà dall’autodisciplina. Cioè dalla capacità dei singoli e delle aziende di adattarsi al meglio (e su questo ci possiamo scommettere) a un quadro di regole destinato a mutare in profondità le abitudini di vita e di lavoro. Se questo quadro sarà incerto, oscuro e contraddittorio (come la montagna normativa) e accompagnato da polemiche strumentali e da piccinerie di parte, il messaggio che arriverà alla gente sarà uno solo: “arrangiatevi”. Il che non è diverso da quel “liberi tutti” paventato come disastro da diversi scienziati. Dunque si tradurrà in una complicità di fatto con il virus, che si nutre di caos quotidiano, vanificando gli sforzi collettivi”.

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