IMMOBILISMO /4
Il fallimento dell’approccio educativo al grillismo

Su LINKIESTA.IT del 30 06 2020, Francesco Cundari scrive: “Sul MES va in scena il fallimento dell’approccio montessoriano al grillismo”.
 Il giornalista si riferisce all’approccio che il Pd di Zingaretti ha adottato per indurre il M5s a comportarsi in modo sensato circa la possibilità di utilizzare i fondi del Mes. Il Pd infatti non ha cercato di imporre agli alleati la propria volontà, il proprio punto di vista. Ma ha cercato, in più riprese e a più voci, di convincerli della opportunità di utilizzare l’occasione offerta dalla Commissione europea con il Mes privo di condizionalità. Apportando delle buone ragioni (ad esempio la necessità di rafforzare le strutture sanitarie di base presenti sul territorio). Lo ha fatto, insomma, come un buon educatore montessoriano, fornendo degli stimoli alla riflessione e lasciando i Cinquestelle “liberi di esprimersi” e maturare nuovi convincimenti, superare le loro posizioni pregiudiziali. Ma per quanti sforzi e pazienza il Pd abbia impiegato non è riuscito nel suo intento educativo. 

Stando alle più recenti  dichiarazioni dei suoi dirigenti (compreso Conte), nel M5s prevale l’idea che il Mes non va utilizzato. Ma se siamo a questo punto, precisa Cundari, non c’è “una colpa che possa essere addebitata a Maria Montessori, le cui teorie sono state confermate puntualmente: ”: lasciati liberi di esprimersi, senza che i premurosi maestrini del Pd si sognassero di coartarne in alcun modo la volontà, i Cinquestelle hanno potuto seguire pienamente la propria natura. Che sfortunatamente, ma non imprevedibilmente, non è quella di un partito progressista, europeista e riformista, come da qualche anno tenta di farci credere in ogni modo un nutrito gruppo di neo-montessoriani.

Insomma, il vero punto debole è l’attuale strategia del Pd.

Molto probabilmente, qualsiasi metodo il Pd avesse adottato, il risultato sarebbe stato uguale, ovvero un fallimento.  Insomma, non si possono educare i barbari se i barbari non sono disposti a farsi educare.
L’approccio di cui parla il giornalista di Linkiesta è figlio della strategia che un “nutrito gruppo” di dirigenti del Pd (Franceschini, Bettini, Cuperlo, Orlando, Zingaretti et alii) ha formulato poco dopo la decisione di dare vita ad un governo con i Cinquestelle. Tale strategia parte dall’idea che il M5s è fondamentalmente un movimento di sinistra ed ha l’obiettivo di trasformare una alleanza nata sotto il segno della necessità (impedire i pieni poteri evocati da Salvini) in una alleanza appunto strategica che non esclude in prospettiva (una ipotesi ventilata, ad esempio, da Franceschini) l’eventualità di una fusione tra le due formazioni.

Evidentemente, per il nutrito gruppo di cui sopra, tale  strategia pone l’esigenza di smorzare le tensioni, di evitare aspri confronti su varie questioni, soprattutto su quelle che vanno ad impattare con posizioni di principio o, come direbbe Cundari, con la “natura” del M5s.
È come una trappola che il Pd si è costruito da solo e che è all’origine di una situazione di governo che non sapremmo come definire se non immobilismo. Quando la situazione di immobilismo corrisponde al contrario di quanto la situazione del Paese richiederebbe e di quanto dichiarato nelle promesse fatte agli elettori, il termine più appropriato è fallimento.
Qualche esempio:

 Spesso i dirigenti del Pd hanno sostenuto che da una stretta alleanza con il M5s il loro partito avrebbe avuto tutto da guadagnare sul piano dei consensi. Come aveva fatto Salvini governando con il M5s anche il Pd avrebbe portato a sé una consistente fetta di elettorato grillino (quella considerata più di sinistra). Non è stato così. L’alleanza Pd-M5s ha avuto l’effetto di arrestare l’emorrogia di consensi che si stava abbattendo sui grillini. Il M5s aveva ottenuto, alle elezioni politiche del 2018, il 32,68% dei voti. Nell’estate 2019, dopo un anno di governo con Salvini, i consensi per il M5s erano diminuiti di oltre la metà rispetto a quella percentuale (i sondaggi li davano intorno al 15%%) ed aveva sonoramente perso tutte o quasi le elezioni amministrative cui aveva partecipato. Tutti i commentatori giudicavano il partito di Beppe Grillo come un partito in via di estinzione. Ma la strategia attuata dal Pd si è rivelata salvifica. La caduta si è arrestata e per il Movimento è iniziata una fase di tenuta e di moderata ripresa (che dura ancora). E il Pd? Da circa il 19% ottenuto alle elezioni del 2018 (considerate una vera catastrofe cui porre urgente rimedio, individuato appunto nella “strategica” alleanza con il M5s) dopo 9 mesi di governo giallo-rosso il Pd si trova nei sondaggi ancora intorno al 19%. Inoltre (ipotesi non del tutto remota, considerata dall’istituto IPSOS di Pagnoncelli) se ad eventuali elezioni anticipate il M5s si presentasse sotto la guida dall’attuale presidente del Consiglio Conte  i grillini tornerebbero al 32% e il Pd si fermerebbe addirittura all’11%.

Un altro esempio di immobilismo/fallimento. I dirigenti del Pd hanno più volte ribadito che una stretta alleanza con il M5s avrebbe reso possibile correggere alcune grosse storture prodotte dal governo giallo-verde: cancellare, ad esempio, i decreti sicurezza (sono sbagliati, diceva Zingaretti, perché con la sicurezza non hanno niente a che fare); abolire o rivedere profondamente il reddito di cittadinanza , quota 100 e il decreto dignità (non hanno creato lavoro -come ha ammesso persino il presidente dell’Imps Tridico- e sono molto onerosi per la finanza pubblica). Ma nulla di tutto questo è stato fatto.

C’è però un aspetto che potrebbe essere visto come un positivo successo della strategia dei neo-montessoriani: la migliore considerazione di cui oggi l’Italia gode in Europa. Ma la mutata considerazione dell’Europa nei confronti del nostro Paese non ha nulla a che fare con la strategia dei neo-montessoriani. È stata l’immediato effetto della caduta del governo Lega-M5s. Effetto che vi sarebbe stato comunque, anche (e a maggior ragione) se l’alleanza Pd-M5s fosse stata diversamente orientata, ad esempio verso un programma che avesse dato più evidenza a quella “discontinuità” che i dirigenti del Pd dicevano essere alla base della nuova coalizione di governo.

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