L’alleanza Pd – M5s e la realtà delle urne

L’alleanza Pd-M5s è stata sottoposta alla prova delle urne poche volte e quelle poche volte non ha dato risultati entusiasmanti. Ben noto il caso delle elezioni umbre dell’ottobre 2019.
In una regione già amministrata dal Centro-sinistra, una inedita alleanza Pd-M5s è stata nettamente sconfitta dal Centro-destra, grazie soprattutto al fatto che l’apporto del M5s è risultato inferiore alle aspettative, raggiungendo appena il 7,41% (alle precedenti regionali del 2015 aveva realizzato il 14,31% e aveva poi quasi raddoppiato i consensi,  con il 27,52%, nelle politiche del 2018).

Anche nelle elezioni amministrative del 4 Ottobre scorso vi sono stati casi in cui Pd e M5s hanno affrontato le urne da alleati. Ad esempio a Bologna e a Napoli, città nelle quali la vittoria del Centro-sinistra è stata netta e al primo turno.
A sentire le dichiarazioni di Letta e di Conte sembra che l’alleanza tra i due partiti abbia dato buoni risultati e altrettanti ne potrebbe dare in futuro.

In particolare Letta, mostrando di essere in continuità con chi lo ha preceduto alla guida del Pd ed ha fortemente voluto l’”alleanza strategica” con Giuseppe Conte, ha dichiarato: “Personalmente condivido questa vittoria con Nicola Zingaretti, che mi ha lasciato il testimone come segretario del Pd”. …“Non siamo più il partito delle Ztl”. Poi, sulla alleanza con i 5 stelle, ha aggiunto: “I 5 stelle vanno bene quando sono in coalizione con noi. Sarà un percorso graduale, ma di convergenza credo abbastanza naturale”.
Conte da parte sua, in riferimento ai casi di Bologna e di Napoli, ha dichiarato: “Se riusciamo a compiere questa traiettoria, a coltivare questo costante dialogo nel rispetto delle reciproche autonomie possiamo essere molto competitivi sia nelle realtà territoriali che nel passaggio alle elezioni politiche”.

Sembra che ai due leader sia sfuggito il fatto che l’apporto dato dal M5s alla vittoria dei candidati del Centro-sinistra, in particolare a Bologna ma in parte anche a Napoli, è stato piuttosto modesto (per usare un eufemismo): Lepore, a Bolgna, ha vinto con il 61,90% dei voti espressi e il Pd vi ha contribuito ottenendo il 36,50% mentre il M5s si è fermato al 3,37%. E anche a Napoli, dove il candidato indipendente Manfredi ha vinto con il 62,88%, il contributo del M5s è stato solo del 9,73%.

Insomma, quando si tratta di affrontare argomenti che riguardano il destino dell’alleanza tra i due partiti, Conte e Letta restano nel vago o addirittura travisano i fatti (i 5 stelle vanno bene quando sono in coalizione con noi) piuttosto che fare i conti con la realtà consegnata dalle urne.

Eppure il fatto politico più rilevante che emerge da queste elezioni è proprio il declino di una alleanza che sembrava essere nata per durare in eterno, per segnare a lungo la vita politica del nostro Paese.

Conte dribbla perché non ha interesse che si metta in discussione l’alleanza con il Pd, che in questo momento gli garantisce la sopravvivenza politica. Per Letta il discorso è più complesso, tenendo conto che sulla alleanza definita “strategica” ha avuto un preciso vincolo di mandato.

Per capire la difficoltà da parte del segretario del Pd nell’affronttare l’ argomento può essere utile ricordare come e perché è nato il sodalizio tra Pd e M5s.

In un sistema elettorale di tipo proporzionale è praticamente obbligatorio costruire alleanze, per il semplice fatto che è quasi impossibile che un partito da solo riesca a raggiungere il 50% +1.
Questa però non è l’unica motivazione che ha portato alla nascita dell’alleanza Pd-M5s.

Dopo la sconfitta alle politiche del 2018, il nuovi dirigenti del Pd volevano dare al partito una identità “nuova”, diversa da quella della precedente stagione, ritenuta troppo liberal e causa prima della sconfitta elettorale. Il cambiamento sarebbe stato favorito, a loro modo di vedere, proprio da una stretta alleanza con chi aveva sconfitto i democratici accusandoli di non essere un partito popolare ma “il partito delle Ztl”. D’altra parte, nel populismo dei 5 stelle erano anche presenti alcuni temi (contrasto alla povertà, reddito di cittadinanza, lotta alla corruzione, ecc ) che li facevano apparire in qualche modo simili a un movimento di sinistra, anzi di sinistra radicale.

Al nuovo gruppo dirigente non bastava essersi liberati di Renzi (del resto nel Pd i renziani costituivano ancora una corrente piuttosto numerosa). Bisognava in tempi brevi reintrodurre temi e narrazioni da tempo dismesse. Bisognava riacquistare un’anima più radicale. E a questo l’alleanza con il M5s poteva rivelarsi utile. Anzi era considerata la vera via per rigenerare il partito.
Basta, per fare un esempio, pensare alla vicenda del referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. Uno dei primi impegni politici affrontato dal nuovo corso. Il Pd malgrado avesse in precedenza avversato questo provvedimento (“una pessima riforma che fa molto male alla democrazia rappresentativa”) è diventato il principale sostenitore di quella che era stata una tipica battaglia populista anticasta.

I fautori della nuova linea sono stati alcuni tra i più noti dirigenti del Pd come Bettini, Cuperlo, Orlando, Franceschini (con il sostegno, non solo morale, di ex dirigenti storici come D’Alema). Ma è Nicola Zingaretti che da segretario se ne è fatto l’interprete principale e anche il più entusiasta, fino al punto di dare all’operazione un tocco da commedia dell’assurdo, arrivando ad affermare che Giuseppe Conte (che da abile trasformista era passato, nel giro di un anno, da premier di un governo di Destra a premier di un governo di Sinistra) era da considerare “il punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti”.

Come si sa, il governo che ne è nato è stato uno dei più inconcludenti della storia della Repubblica.

Dopo la caduta del Conte 2 e le dimissioni di Zingaretti, i dirigenti del Pd hanno chiamato a succedergli Enrico Letta, con il preciso mandato di continuare sulla linea dell’alleanza con il M5s, alla quale finora ha sempre tenuto fede (del resto solo un atto di fede può spiegare l’affermazione che il M5s va bene quando si presenta in coalizione con il Pd, perché non è andata così: tra  le grandi città il risultato migliore il M5s l’ha ottenuto a Roma dove, pur perdendo la poltrona di sindaco, Virginia Raggi ha ottenuto circa il 20% dei consensi).

Insomma, una alleanza sulla quale il Pd ha investito molto.
Ed ora una serie di fattori spingono a rimettere tutto in discussione.
C’è l’azione del governo Draghi, le cui potenti iniezioni di pragmatismo produrranno sostanziali cambiamenti sia nei rapporti interni dei partiti che lo compongono sia nei rapporti tra i partiti.
C’è l’ultimo impietoso risultato elettorale conseguito dal M5s il 4 Ottobre, che mostra essere debolissimo chi prima era considerato fortissimo.
E c’è l’affacciarsi sulla scena politica italiana della possibilità che si costituisca una formazione di Centro liberaldemocratico.

Su quest’ultimo fattore vale la pena richiamare brevemente l’attenzione, anche perché di solito è il più trascurato dai commentatori. Si tratta della buona affermazione di alcune liste di ispirazione liberaldemocratica in varie città, ma soprattutto a Roma e Milano, le due città più grandi e importanti del Paese, e pertanto il fatto merita di essere considerato di rilievo nazionale.

A Milano il sindaco di centrosinistra Beppe Sala si è ricandidato alle elezioni (e le ha vinte) dando vita ad una coalizione molto larga, senza il M5s, comprendente anche una lista “riformista”, costruita con l’apporto di formazioni cosiddette centriste (Azione di Carlo Calenda, Italia Viva di Matteo Renzi, Più Europa di Emma Bonino e altri).

A Roma una coalizione di liberaldemocratici ha sostenuto la candidatura a sindaco di Carlo Calenda, ottenendo il 20% dei consensi e risultando così decisiva per il successo del candidato di centrosinistra Roberto Gualtieri al ballottaggio.

Due sono le cose principali da rilevare: la prima è che esiste un’area di elettori che (come ha scritto l’on. Luigi Marattin su Linkiesta) “non si rassegna a scegliere tra ‘tax the rich’ e ‘prima gli italiani’ (o se preferite, tra Conte/Bettini e Salvini/Meloni)”. Per questa area è mancata finora la costruzione di una offerta politica. Ad avviare la costruzione di tale offerta hanno inteso contribuire coloro che hanno messo in piedi le coalizioni liberaldemocratiche di Roma e Milano.

La seconda cosa è che il buon esordio elettorale dei liberaldemocratici rende sempre più insostenibile l’affermazione usata spesso dai dirigenti del Pd a motivazione della loro scelta strategica: all’alleanza con il M5s non c’è alternativa.

I tre fattori sopra menzionati spingono a  rendere superata nei fatti la strategia zingarettiana omaggiata da Letta.
Per ora, tuttavia, una nuova strategia stenta a prendere forma.
Ma siamo ottimisti. In questi ultimi giorni Letta ha spesso affermato di voler fare “Il federatore”. Pertanto, se da una parte nelle parole di Letta c’è ancora un attaccamento alla linea politica ereditata da Zingaretti, dall’altra parte giungono segnali che lasciano intravedere la possibilità di una ridefinizione dei rapporti tra Pd e M5s.

L’immagine in evidenza è tratta da: ilsole24ore.com;
le altre immagini sono tratte, nell’ordine, da: livesicilia.it; torino.repubblica.it; radioazzurra.fm; ladomenicasettimanale.it; governo.it; milanotoday.it

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