Il modello Italia?
Il cosiddetto “modello Italia” per affrontare l’emergenza coronavirus viene derubricato dal giornale on line Linkiesta del 6 aprle tra i “falsi miti”. Tante le ragioni addotte dal giornalista Marco Plutino.
“Quattordicimila morti dovrebbero
consentire – scrive il giornalista – di
riporre nel cassetto l’idea nella quale molti si sono cullati di una nostra
eccellenza”.
La critica non viene mossa al sistema sanitario nel suo coplesso (che gode tra
l’altro di buona fama internazionale). Evidenzia invece come esso non sia stato
messo nelle condizioni di rispondere in maniera adeguata ad “una prova
specifica che richiedeva procedure, servizi e scelte ben precise”.
“Ormai – sostiene Plutino – abbiamo elementi a sufficienza per affermare che il “modello Italia” è poco meno che un’ininterrotta sequenza di errori (ogni tanto qualcuna se ne indovina, per la legge dei grandi numeri), a cui si devono – ahinoi – una parte molto significativa dei deceduti”.
“Basti pensare alla improvvida chiusura dei voli diretti dalla Cina, che ha fatto rientrare centinaia di migliaia di persone da altri scali e senza controlli, agli ospedali ridotti a focolai e vettori di contagio; alla percentuale impressionante (circa il 10 per cento dei contagiati ufficiali) di personale medico e paramedico contagiato e quindi fuori gioco a causa dell’assenza o insufficienza di dispositivi sanitari di protezione individuale; alla situazione esplosiva delle case di riposo per anziani per evidente carenza di prevenzione e controlli; al tempo prezioso (almeno un mese intero) perduto alla ricerca non solo nella direzione sbagliata, ma pure pigra, del paziente uno”. Per non parlare delle “persone contagiate con sintomi o addirittura morte a casa senza neanche che venisse effettuato il tampone per inefficienze e contraddittorie o illogiche direttive sanitarie e amministrative”.
Come dare torto a Marco Plutino?
Tra gli errori elencati ce n’è uno la cui evidenza è stata sotto gli occhi di
tutti: l’insufficiente disponibilità dei dispositivi di protezione individuale,
sia per il personale sanitario che per i cittadini tutti. La vicensa delle
mascherine introvabili è il segno di una inefficienza che non trova
giustificazioni. Anzi sono proprio le varie giustificazioni addotte che rendono
più gravi le responsabilità delle autorità preposte e di chi le avrebbe dovuto
coordinare con indicazioni precise e non contraddittorie.
Hanno detto che sono stati presi alla sprovvista. Ma l’OMS aveva avvisato tutti
i governi già a gennaio. Come è possibile che, ad esempio, in una delle regioni
più colpite come il Piemonte e dove il livello di contaggio resta in crescita,
ancora oggi 7 aprile le farmacie non dispongono di mascherine mentre la Regione
ne ha decretato l’obbligo per gli addetti alla vendita e la raccomandazione per
chi fa la spesa, a partire dall’8 aprile. Ancora più contraddittoria e confusa
la situazione negli ospedali: al personale prima è stato detto che le
mascherine non servivano, che bastava il distanziamento, poi è stato reso
obbligatorio l’uso delle mascherine solo per coloro che operavano direttamente
con pazienti affetti da Covid-19 e infine negli ultimi giorni l’obbligo è stato
esteso a tutti gli operatori per tutta la durata delle attività .
Insomma, da quanto si è visto nel nostro
Paese è possibile affermare che il ministero della Salute italiano si è mosso
sulla base di un ragionamento di questo tipo: strumenti per rilevare chi sono e
quanti sono gli infettati non ne abbiamo (o comunque ne abbiamo pochi); quel
che possiamo fare è soccorrere i malati e cercare di rallentare il diffondersi
dell’epidemia con il distanziamento sociale. Risultato: poche indagini volte a
ricostruire le “catene del contagio” e pochi o niente interventi mirati.
Quanto poi lo stesso metodo del distanziamento sociale sia stato praticato con
scarsa chiarezza e molta confusione lo dimostra il gran numero di contrastanti
provvedimenti che su questo tema sono stati emanati dalle singole regioni.
Il massimo della originalità è stato raggiunto dal presidente del Consiglio che
nel corso di una conferenza stampa, ad una giornalista che si faceva portavoce
di un gruppo di mamme che chiedevano fosse introdotta la possibilità di fare
brevi passegiiate col proprio bambino (nel rispetto, naturalmente, delle norme
sul distanziamento) ha risposto che data la gravità della situazione non era
prudente consentire la passeggiata con i bambini. Ma, ha poi aggiunto, le mamme,
se vogliono, possono portare con sé i bambini quando vanno a fare la spesa
(sic!).
La vicenda che più di ogni altra
basterebbe da sola per far mettere la parola fine al bla bla mediatico
sul “modello Italia” riguarda la regione Veneto.
Tra le regioni del nord, le più colpite dalla pandemia, quella che è riuscita
meglio, almeno finora, a contenere la diffusione del virus e a contenere i
tassi di letalità è stato il Veneto; ovvero la regione che meno ha seguito le
indicazioni nazionali, quelle che venivano esposte da Conte e dalla sua equipe
di esperti in quasi quotidiane dirette televisive. La regione Veneto infatti,
più che al “modello Italia”, sembra aver guardato al “modello Corea del sud”.
Cosa caratterizza quanto è stato fatto in Codea del Sud e in che senso il Veneto si è mosso sulle sue
orme lo ha spiegato assai bene il quotidiano Il Foglio con due articoli
pubblicati il 5 aprile, uno a firma di Giulia Pompili e l’altro a firma di Marianna
Rizzini.
“L’esperienza sudcoreana – scrive Giulia Pompili rifacendosi ad un opuscolo
pubblicato sul sito ufficiale del governo di Seul – si basa sulle tre T:
Testing, Tracing, Treating, testare, tracciare e trattare”. “ Il governo
coreano ha condotto un numero impressionante di test diagnostici in un breve
periodo di tempo per rilevare i pazienti e bloccare l’epidemia il prima
possibile (al 23 marzo il numero totale di test era 338.036)”.”La Corea si è
rivolta alla rete di laboratori pubblici e privati per sviluppare questi test”.
E poi sono stati immediatamente messi in campo dei sistemi efficaci per ridurre
al minimo le interazioni tra operatore e paziente, ridurre i tempi di attesa e
quindi la nascita di focolai. Ad esempio: “accanto all’ingresso del H Plus Yangji Hospital di Seul i medici hanno
ingegnato un tendone con una specie di cabina telefonica: gli operatori all’interno
sono protetti, e non toccano il paziente, che entra nella cabina e parla
attraverso il telefono con il paramedico, e l’operazione di prelievo del
campione avviene con i guanti di gomma agganciati al vetro divisorio. Una volta
che il paziente esce tutta l’area viene bonificata”.
Marianna Rizzini spiega, con le parole del virologo Andrea Crisanti, come ”in Veneto è stata sperimentata una via per così dire ‘sudcoreana’ al contenimento del virus”. Dice Crisanti: “ si è studiato a fondo il caso di Vo’ Euganeo, uno dei primi paesi ‘zona rossa’, dove, dopo aver sottoposto i 3.300 abitanti a tampone, si è scoperto che un altissimo numero di casi era asintomatico (circa il 70 per cento, e l’asintomatico è purtroppo contagioso). Si è quindi scelto in fretta la strada del contenimento del virus attraverso l’individuazione precoce dei positivi”. Altro punto della strategia veneta dice Crisanti, è : “l’individuazione per tempo dei focolai e il loro conseguente spegnimento” (e mette l’accento sulla necessità di prestare attenzione alla situazione nelle case di riposo per anziani). Ora nel resto d’Italia c’è chi si ta attrezzando per seguire l’esempio veneto (Piemonte, Campania, Puglia). Secondo Crisanti, “la distanza sociale è importante, ma per prepararsi al dopo, oltre allo sforzo logistico su tamponi e analisi diagnostiche, è necessario organizzare un sintema di tracciabilità”. Anche questa è una similitudine con la Corea del Sud. “Servirebbe, conclude il virologo, per poter passare alla fase successiva, una volta che la curva dei contagi si sarà stabilizzata verso il basso, un ‘piano nazionale’ con linee guida chiare”.
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