I terroristi non sono terroristi e i pacifisti non sono pacifisti

È ancora presto per fare un bilancio su quel che è accaduto e sta accadendo in seguito all’attacco che l’organizzazione militare palestinese Hamas ha lanciato il 7 Ottobre scorso contro lo stato d’Israele. Tuttavia, a oltre un mese di distanza, alcuni elementi di giudizio incominciano ad emergere sulla natura e gli scopi di quell’evento.

Tutte le agenzie e gli organi di stampa hanno usato l’espressione “ attacco terroristico”. Probabilmente in considerazione delle atrocità compiute in quella occasione nei confronti di cittadini inermi.

Non è la prima volta che le criticità nei rapporti tra Gaza e Israele sfociano in attacchi armati. Ma gli episodi precedenti hanno coinvolto gruppi di militanti molto più piccoli e si sono conclusi in pochi giorni. Erano appunto attacchi volti a creare terrore tra la popolazione israeliana.

Questa volta non è stato così (o non solo così). Questa volta l’organizzazione militare che da 16 anni controlla la Striscia di Gaza (purtroppo con un ampio consenso tra la popolazione palestinese, che ha votato in maggioranza per il partito di Hamas) ha compiuto, per così dire, un salto di qualità: è passata dal terrorismo alla guerra. Sempre in stile terroristico (soprattutto per quanto riguarda le atrocità) ma si tratta di guerra vera e propria. L’obiettivo non era (solo) creare terrore tra la popolazione. L’obiettivo, dichiarato, era  “distruggere lo stato di Israele”.

Un attacco, ha scritto il New York Times, con un livello di sofisticazione “inusuale” per Hamas: per coordinazione (hanno compiuto incursioni con guerriglieri per via aerea, terrestre e marittima) e con una eccezionale copertura di missili (nella sola giornata di sabato 7 Ottobre hanno lanciato circa 5 mila razzi contro il territorio di Israele). La recinzione di confine fortificata tra Israele e Gaza è stata violata da camion e bulldozer carichi di esplosivi mentre altri combattenti la superavano con alianti motorizzati e altri ancora hanno usato barche per attaccare una base costiera israeliana.

Mentre una pioggia di missili (che da allora non si è più interrotta) colpivano le città israeliane e i kibbutz vicini alla Striscia di Gaza, migliaia di miliziani palestinesi armati si aggiravano tra le abitazioni uccidendo e facendo prigionieri, sia tra i civili israeliani che tra militari, portandoli a Gaza (trasformandoli in scudi umani e merce di scambio) nella rete difensiva costituta da centinaia di kilometri  di tunnel sotterranei, bunker, mine, droni-kamikaze e razzi anticarro. Un’operazione estesa di guerra –  è il commento dell’Economist –  perfettamente riuscita.

Quale fosse l’obiettivo di tutto ciò lo ha detto chiaramente un portavoce di Hamas, Ghazi Hamad: “Abbiamo dimostrato che Israele non è forte, possiamo sconfiggerli”. Quindi una sorta di prova generale dell’obiettivo che rimane la ragione prima della “resistenza palestinese”guidata da Hamas: distruggere Israele.
Ma come ha fatto Hamas a raggiungere questo inusuale livello di sofisticazione? E poi, perché anche la ferocia?

La prima domanda trova una facile risposta.
Secondo il Wall Street Journal (ma ormai è opinione diffusa)l’attacco di Hamas è stato organizzato anche con il sostegno dell’Iran.
Del resto, l’enorme capacità offensiva messa in campo fa pensare che vi sia stato perlomeno il supporto, se non proprio il coinvolgimento diretto, degli eserciti di quegli stati (tra cui appunto l’Iran) che non hanno mai fatto mistero di essere a fianco di Hamas nella lotta allo stato di Israele “fino alla liberazione della Palestina e di Gerusalemme” (ovvero fino alla eliminazione di Israele).

Secondo quanto ha riferito il Corriere Della Sera del 9 Ottobre, Washington ritiene che tra le cause dell’attacco di Hamas ci sia la volontà di interrompere le trattative diplomatiche tra Israele e Arabia Saudita, a cui si oppongono Hamas, Hezbollah e Iran.

Il giornale on line Linkiesta del 7 Ottobre ha messo in evidenza il fatto che nel maggio scorso a Beirut è stato siglato un “patto della resistenza” tra Hezbollah e Hamas stessa, patrocinato da Teheran, con l’intesa di azioni armate comuni.
Insomma, Hamas e l’Iran hanno dichiarano guerra a Israele inserendosi con straordinaria efficacia, per boicottarla, nella trattativa tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Gerusalemme per arrivare ad una pace duratura nella regione. E resta, inoltre,  – conclude Linkiesta – che l’invasione terrorista proveniente da Gaza rientra nella più ampia guerra tra gli arcinemici islamici Arabia Saudita e Iran, i duellanti che tengono in ostaggio il Grande Medio Oriente e lo condannano al caos eterno. 

In uno scenario del genere, diventano più comprensibili anche altre cose. Ad esempio l’inaudita efferatezza con la quale il 7 Ottobre i miliziani di Hamas hanno condotto la strage di uomini, donne e bambini nei kibbutz israeliani. Quella ferocia non era fine a se stessa. Era finalizzata a  provocare una dura reazione da parte di Israele, cosa che avrebbe a sua volta fatto aumentare il numero dei sostenitori della causa palestinese nel mondo. Come è effettivamente avvenuto. Incredibilmente, a Roma come a Parigi come a New York come in centinaia di altre città la gente non è scesa in piazza per condannare gli orrori perpetrati dai terroristi ma per appoggiare le loro assurde ragioni, che non sono la pace e uno stato per la Palestina ma la guerra e “la distruzione dell’entità sionista”.


Nel dibattito su quel che è accaduto e sta accadendo a Gaza abbiamo assistito ad una progressiva rimozione dei massacri compiuti da Hamas. In primo piano è rimasta solo la controffensiva israeliana su Gaza, dietro la cui drammatica realtà hanno trovato giustificazione numerose manifestazioni di sostegno al popolo palestinese (in se giuste e necessarie) che però sono sfociate in espressioni di vero e proprio antisemitismo, nel quale convergono forme antiche e arcinote (come dipingere stelle di David sui muri di case in cui si presume abitino ebrei) e forme nuove, ammantate di retorica per così dire progressista, come quella esposta da una ragazza durante un raduno pacifista (ascoltabile in podcast su Corsera): “Noi rifiutiamo la retorica della guerra. Israele è la seconda potenza bellica al mondo e produce e riproduce continuamente una violenza strutturale di cui ha bisogno per giustificare la propria esistenza in quanto stato etnico in quanto stato fondato sulla apartheid in quanto stato religioso e autoritario” (alla ragazza ovviamente sfuggiva il fatto che Israele è l’unica democrazia presente nella regione arabo-musulmana, nonché il fatto che il programma di Hamas che lei ama tanto non prevede la costituzione di stati che non siano teocrazie autoritarie).


Abbiamo visto in questi giorni, in molte università italiane, europee e americane affollate manifestazioni di studenti (e non solo) che trincerandosi dietro le parola “pace” e “free palestine” sostenevano le stesse cose che sostiene Hamas: quanto sta avvenendo nella Striscia per mano delle forze armate israeliane è un “genocidio”; la liberazione della Palestina va attuata dal Giordano al mare, ovvero cancellando lo stato di Israele “by any means necessary” (qualsiasi cosa ciò comporti) comprese dunque le stragi di civili; gli efferati omicidi compiuti da Hamas erano “legittimi” o comunque imputabili solo a responsabilità di Israele. E sempre in linea col terrorismo islamico venivano eseguiti cori del tipo “intifada fino alla vittoria”(Statale di Milano) e  “Tutto il mondo detesta Israele” (corteo studentesco a Roma).


Naturalmente tutte le manifestazioni “pacifiste” chiedono a gran voce il “cessate il fuoco “ ad Israele; nessuno slogan e nessun cartello per chiedere la stessa cosa all’esercito di Hamas (sorvolando sul  fatto che è stato Hamas a scatenare l’attuale conflitto).

Da dove nasce questo antisemitismo?
Il Corriere Della Sera ha posto questa domanda allo storico David Bidussa, della Fondazione Feltrinelli.

Oggi in Europa – secondo Bidussa – abbiamo sia fenomeni di antisemitismo che fenomeni di islamofobia. Tutti e due nascono da un processo che lui chiama “assolutizzazione dei caratteri”. Succede che quando si prendono in considerazione le parti di un conflitto avviene una scelta “buoni – cattivi”, bontà totale da una parte, cattiveria totale dall’altra, per cui gli individui non sono più individui con una storia, con conflitti, difficoltà ecc., ma diventano incarnazione di simboli. E poiché i buoni non possono non vincere, gli viene perdonato qualsiasi atto, non si vedono alcuni aspetti anche discutibili o addirittura terribili delle azioni che compiono. Questo è vero in questa guerra per tutte e due gli attori: l’assolutizzazione, impedendo una visione “a specchio”, favorisce la caduta verso l’antisemitismo o verso l’islamofobia.

Una spiegazione più (direttamente) politica è quella fornita da Federico Rampini, un acuto osservatore della società americana:

Il fatto che In molte università americane (ma il discorso vale anche per molte università europee e del resto del mondo) dove si sono svolte manifestazioni di solidarietà verso la Palestina, migliaia di studenti hanno sottoscritto documenti che legittimano il terrorismo di Hamas può destare sorpresa – dice Rampini – solo in chi non è a conoscenza del clima ideologico che regna in quelle università, ormai da molti anni, determinato dalla presenza di una sinistra radicale, molto forte, che predica una totale ostilità verso l’Occidente. È un clima “dottrinario e dogmatico” in cui ciò che conta non è il confronto di idee ma “prendere una posizione dividendo il mondo tra buoni e cattivi”. “L’Occidente è l’impero del male, gli altri sono vittime”.

“Contro Israele si scatenano di sicuro le pulsioni profonde dell’antisemitismo, ma inoltre non gli si perdona di essere uno dei nostri, da questa parte della barricata nelle grandi divisioni geopolitiche fin dal 1947”.

Nelle università ideologizzate si inneggia al terrorismo di Hamas piuttosto che condannarlo “anche a costo di sorvolare sulle proprie contraddizioni: per esempio, quegli stessi giovani che giustificano la violenza di Hamas dovrebbero essere orripilati dal sessismo e dall’omofobia degli islamisti”.
In più, nelle università americane, “a rendere ossessiva la difesa dei musulmani, è intervenuta la saldatura tra gli estremisti afroamericani e i filo-palestinesi. Per il movimento ultrà Black Lives Matter, neri e palestinesi sono vittime della stessa oppressione dell’uomo bianco”. 

Oltre a tutto ciò, nel “free palestine” intonato dagli studenti e da tutti quelli che si sono uniti a loro c’è, a nostro avviso, una grossa confusione tra le aspirazioni legittime del popolo palestinese (avere un proprio stato nella terra tra il Giordano e il Mediterraneo) e le aspirazioni per nulla legittime degli estremisti islamici (lo stato possibile tra il Giordano e il Mediterraneo non contempla la presenza di Israele).

Non importa qui ragionare su quanto tale confusione sia frutto di ingenuità o di una precisa volontà politica. Sta di fatto che in nome della libertà e della pace sono scesi in piazza fomentando odio e divisione.

E se andiamo a rivedere la storia degli ultimi 50 anni della regione tra il Giordano e il Mediterraneo troviamo che proprio da una simile confusione (tra aspirazioni legittime e non legittime) sono derivate molte delle difficoltà che hanno impedito di giungere ad una composizione pacifica del conflitto  tra Palestina e Israele.

Non è una fortuna per Israele avere alla guida in questo frangente un primo ministro come  Benjamin Netanyahu, che ha sempre alimentato una confusione uguale e contraria: tra le legittime aspirazioni del popolo israeliano (di avere una patria e confini sicuri) e le poco legittime aspirazioni degli estremisti religiosi ebraici (di annettere la Cisgiordania).
Netanyahu ha infatti la responsabilità di aver favorito le mire di Hamas ad acquisire il controllo sulla Striscia di Gaza a scapito dell’Autorità Nazionale Palestinese, che aveva riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele ed era favorevole alla soluzione dei due stati. Soluzione che però non è mai piaciuta a Netanyahu come ad Hamas. Il primo per tenere in vita l’obiettivo degli estremisti religiosi ebrei di condurre una occupazione strisciante della Cisgiordania, il secondo per tenere in vita la speranza di distruggere Israele.

Non è un caso se gli opposti estremismi marciano con un identico slogan “dal fiume al mare”; slogan/dottrina che, chiunque lo scandisca, non porterà mai alla pace tra i due popoli.

Sperando che non sia già troppo tardi, è ora di sostituirlo con l’unico slogan/dottrina che proprio in questi giorni rivela la sua perdurante attualità: “due popoli due stati”, senza se e senza ma ovvero senza i distinguo capziosi, astorici e violenti dei due estremismi.

Al termine di una riflessione sui comportamenti delle piazze pacifiste dei giorni scorsi, il direttore del giornale online Linkiesta, Christian Rocca, riferendosi direttamente al conflitto tra Palestina e Israele e, in parallelo, a quello tra Russia e Ucraina, giungeva alla seguente conclusione:
La storia insegna che le guerre finiscono in tre modi: con il dietrofront di chi le ha cominciate, con la capitolazione dell’aggredito o con la vittoria militare di uno dei due contendenti.
I pacifisti che credono davvero nella pace dovrebbero chiedere ad Hamas di rilasciare gli ostaggi (e alla Russia di tornarsene a casa), altrimenti la migliore opzione per far tacere le armi è augurarsi una celere vittoria militare di Israele (e dell’Ucraina).
Sempre, ovviamente, che non preferiscano rinunciare alla società aperta, piantarla con i diritti civili e vivere in una dittatura teocratica (e imperialista). Nel qual caso, non sarebbero pacifisti, ma guerrafondai che tifano per gli avversari.

Immagine in evidenza da unsplash

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