SICUREZZA ~ LIBERTÀ
L’epoca dell’intraquillità e le due anime del cattolicesimo

La festa di Cristo Re, celebrata come ogni anno nell’ultima domenica di novembre, e un articolo di “Avvenire”, pubblicato anch’esso verso la fine di novembre, ci consentono di riflettere sulla presenza di due concezioni del cattolicesimo e di quanto distanti siano i loro contenuti.

Partiamo dalla festa del Cristo Re, la cui genesi è già illuminante. Essa venne introdotta nel dicembre del 1925 da Pio XI (il papa del Concordato e di Mussolini, definito “uomo della Provvidenza”) con l’enciclica “Quas primas, il cui messaggio centrale si può riassumere in un concetto: il futuro dell’umanità sarà possibile solo con la teocrazia.

La lettura della breve enciclica è molto istruttiva per capire quanto essa sia interna ad una visione “ancien regime” della società, in particolare quando il papa definisce esplicitamente lo scopo della festa: “se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società. Il “laicismo”, la peste della età nostra…” (in seguito Pio XI spiega che per “laicismo” egli intende soprattutto il concedere la libertà religiosa ad ogni fede, con l’abolizione della religione di stato e dei privilegi conseguenti).

Nella prima parte dell’enciclica Pio XI prova a dimostrare che a Cristo come uomo spettano il nome e i poteri del re, in base alla lettura del Primo Testamento e dei Vangeli. Poi affronta il delicato problema di definire il Regno (chi non ricorda Gesù che disse ”Il mio Regno non è di questo mondo”?) e se la cava sostenendo che, in primo luogo, esso è spirituale (ci mancherebbe altro!), ma subito aggiunge: ”D’altra parte, sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali…il dominio del nostro Redentore abbraccia tutti gli uomini, non soltanto i popoli cattolici, senza differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile (cioè l’istituzione statale n.d.r.) Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l’incolumità del loro potere (!), l’incremento e il progresso della patria”.

Siamo sempre al medioevo di Gregorio VII quando, in maniera ancora più esplicita, attorno al 1080, egli pretendeva di dare ordine ai governanti in quanto la subordinazione degli stessi al Cristo esigeva automaticamente l’obbedienza al suo vicario in Terra (lettera al vescovo di Metz).

Ciò che tuttavia ci interessa sottolineare è la premessa che sorregge il programma di questo totalitarismo religioso, cioè la visione di un mondo terribile per sofferenze e disgrazie e sempre sull’orlo dell’abisso, da cui sfuggire e a cui contrapporsi. Infatti, sono presenti ovunque, scrive Pio XI, “calamità da cui vediamo oppresso ed angustiato il genere umano …tanta colluvie di mali imperversava nel mondo perché la maggior parte degli uomini avevano allontanato Gesù Cristo e la sua santa legge dalla pratica della loro vita, dalla famiglia e dalla società…”. Ecco l’elemento centrale che giustifica la teocrazia.

Per il pensiero tradizionalista diventa assolutamente necessario sottolineare i mali e le tragedie del mondo, metterli in evidenza quanto più possibile, creare dove non ci sono ed aumentare, se già esistenti, l’angoscia per il presente e il terrore del futuro. La paura che si prova nei riguardi del mondo in cui si vive è infatti un’ottima condizione per poi delegare ai rappresentanti di un certo messaggio religioso (o politico) il proprio destino, per sostenere la necessità di Cristo Re come soluzione di tutte le ingiustizie, come legislatore di ogni stato e, come sua interprete, la Chiesa di Roma.

La raffigurazione della catastrofe incombente resta una caratteristica del pensiero dei Tradizionalisti di ogni tempo, dall’epoca dei visionari che prevedevano periodicamente l’apocalisse imminente fino ai testimoni di oggi come padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, assieme ai messaggi della sua “Regina della pace” di Medjugorje.  I veggenti bosniaci e i loro amplificatori nei media stanno da molti anni contribuendo a creare il clima da “ultima spiaggia” in cui guerre, crisi economiche dilaganti, insicurezza personale e sociale sono da attribuirsi al “mondo senza Dio” e, per bocca della stessa Madonna di Medjugorje al “modernismo”! La dannazione del mondo e della storia, indugiando sui disastri che incombono da ogni parte e fomentando la sgomento per il domani, è la migliore premessa per la fondazione dei totalitarismi religiosi e politici.             

Contemporaneamente alla festa del Cristo Re, il quotidiano “Avvenire” pubblica alcune pagine del libro di Miguel Benasayag e Teodoro Cohen “L’epoca dell’intranquillità: lettera alle nuove generazioni”.

La prospettiva fornita dagli autori è completamente diversa da quella dei tradizionalisti, con il loro invito alla fuga dalla realtà, oramai compromessa e totalmente acquiescente a Satana, realtà di cui avere paura e da cui allontanarsi precipitosamente delegando ad altri la soluzione alla propria angoscia.

La sintesi delle pagine pubblicate da “Avvenire” rispecchia invece la concezione fatta propria dal cattolicesimo maturo e responsabile, che parte da una premessa inderogabile: Gesù non è venuto ad abolire la “croce”, come insieme di sofferenze e dolori, ma vi si è sdraiato sopra ed ha chiesto ad ognuno di seguirlo, prendendo su di sé la propria “croce” (“con animo lieto e gaio”, avrebbe aggiunto un millennio dopo Francesco d’Assisi). “…Un’epoca oscura e caotica è governata dall’insicurezza in ogni suo ambito: dal modo di vivere la propria vita o di accompagnare gli studi, alla gestione di un Paese o di una città, fino al modo di relazionarsi con gli altri.”

Il punto di partenza sembra simile a quello dei tradizionalisti apocalittici, cioè l’esistenza delle nuvole nere sopra la Terra. La differenza sta nel capire le conseguenze e come poterne “uscire”. Infatti, gli autori sostengono che “è l’insicurezza che amplifica e giustifica il ritmo dell’urgenza, del non perdere tempo, di sacrificare le proprie libertà in nome di una sicurezza illusoria. Cattivi ideologi (siano essi politici o guru di ogni tipo) sono sempre pronti ad approfittare di questa situazione, offrendo sicurezza in cambio di libertà. In realtà, però, la sicurezza è una falsa promessa: spesso, occuparsi dell’insicurezza provoca insicurezza…”.

Come affrontare allora questa realtà così difficile e dolorosa a cui reagiamo con l’insicurezza? Si tratta di accettare il presente come il punto di partenza da cui condurre la nostra vita, “la distruzione, l’orizzonte minaccioso, sono le condizioni in cui sviluppare il nostro agire”. Prima di agire, tuttavia, proviamo a cambiare il nostro punto di vista: l’insicurezza non è un dato oggettivo ma è la conseguenza dell’interpretazione che noi stessi adottiamo di fronte agli eventi: “non è questione di cercare una nuova sicurezza, ma di cambiare la nostra attitudine esistenziale, passando dall’esperienza passiva dell’insicurezza a quella attiva dell’intranquillità.

L’insicurezza è un’esperienza passiva di sofferenza, in cui il mondo esterno e le sue minacce vengono subite”. Inoltre, dobbiamo riflettere sulla illusorietà della speranza, quando diventa superstizione, perché “presuppone che si possa giungere a uno stato di sicurezza definitivo, allontanando così, una volta per tutte, l’insicurezza in atto (come promettono molti politici). Il sogno della sicurezza …di arrivare finalmente a un punto definitivo di assenza di negatività, a una certa fissità in cui ci si possa sedere comodi, perché sicuri e protetti. Per realizzarlo si è disposti a tutto, in particolare a delegare scelte e funzioni a chi promette di avere la soluzione in tasca”.

Il prezzo che dobbiamo pagare per uscire dall’insicurezza è “la prigione esistenziale” perché “quando ci si sente insicuri, viene quasi spontaneo affidarsi a una norma, a una legge, a un codice di condotta imposto dall’esterno. Delegare per sentirsi protetti ed evitare di assumere le sfide che si presentano”. Così vendiamo la caratteristica più profonda dell’essere umano, la sua libertà di scelta, concediamo alla paura di impossessarsi della nostra volontà di vivere che è tale solo quando è libera.

Ecco perché l’insicurezza si oppone in modo chiaro all’intranquillità propria del vivente, che non può mai raggiungere uno stato finale di soddisfazione, né può mai pensare di essere “al sicuro” una volta per tutte, perché esiste nel divenire e nella fragilità, che sono la sua condizione ontologica fondamentale. Il vivente è sempre intranquillo, deve agire per continuare a essere…”.

Insomma, la vita è insicurezza permanente e questa realtà è stata esperita da tutti i singoli individui in quanto mortali e da tutte le società che ci hanno preceduto. L’impermanenza è una qualità del nostro essere e della natura. “…la vita è sinonimo di divenire. All’interno di questo divenire rischioso, è proprio l’intranquillità che caratterizza il vivente a permettergli di assumere le sfide che gli si presentano…” La stessa Provvidenza, intesa come sostituzione dell’agire umano all’interno della storia, viene relegata nella categoria del mito delegittimante.Entrare in amicizia col divenire significa rifiutare come illusorie le facili (e attrattive) proposte di una sicurezza definitiva come soluzione di un’epoca caotica e minacciosa

Questa filosofia propone una modalità di praticare la religione non più come “oppio dei popoli”, cioè una soluzione preconfezionata per dissolvere il senso di angoscia, ma chiede che colui che crede nei Vangeli sia costretto ad interrogarli con le nuove domande che la vita gli propone e non si accontenti di ripetere dogmi e risposte nati in altri contesti. “Ai venditori di sicurezza rispondiamo che l’illusione già la conosciamo, e che non cerchiamo la sicurezza, ma la possibilità di seguire e sostenere il desiderio che ci attraversa, che è desiderio di vita, di gioia, di solidarietà. Il caos, la distruzione, l’orizzonte minaccioso per noi sono le condizioni in cui sviluppare il nostro agire”. 

L’immagine in evidenza: da una foto di Zulmaury Saavedra su Unsplash

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