La natura umana di Gesù di Nazaret

il volto di Gesù: era quello di un uomo? era quello di Dio? oppure di un uomo e di Dio assieme?

Il riconoscimento della divinità di Gesù non è sempre stato presente nella fede dei credenti: mentre egli era in vita e poi nel I e II secolo gruppi di cristiani lo consideravano soltanto un uomo (“intronizzato” da Dio e reso Figlio dopo la resurrezione oppure dopo il battesimo, ma pur sempre uomo). Si trattava prevalentemente della interpretazione giudaico-cristiana, che non è affatto scomparsa – nella forma dell’unica natura umana di Gesù di Nazaret – nel corso della storia del cristianesimo. Essa è fatta propria, ancora oggi, da tutti coloro che, anche agnostici o perfino atei, onorano il Messia e ne considerano ammirevole la morale trasmessa (esemplare resta Matteo 25, 31-46, cioè il Giudizio Finale, caposaldo di un’etica universale accettabile da persone di ogni credo e filosofia). Costoro giudicano Gesù -senza sminuirne il valore di Testimone- soltanto un grande profeta apocalittico e non l’incarnazione della Divinità.

 Il concetto della doppia natura di Gesù – umana e divina in una sola persona – ha avuto bisogno di tempo per diventare patrimonio teologico maggioritario. Infatti, ha immediatamente suscitato non solo accese discussioni all’interno del Cristianesimo, ma anche contrapposizioni e scissioni, in particolare quando sembrava che si sottolineasse una natura a scapito dell’altra. Ricordiamo, tra le principali correnti di pensiero, definite dal gruppo vincitore “eretiche”, il docetismo gnostico (nega l’umanità di Gesù) e l’arianesimo (la “divinità” di Gesù è inferiore a quella di Dio). Ben sei concili ecumenici, tutti nel primo millennio (da quello di Antiochia all’incirca nel 265 d.C. fino al Terzo Concilio di Costantinopoli del 681 d.C.), non sono stati sufficienti a chiarire la questione.

Riuscire a conciliare il fatto che Gesù ha avuto una doppia natura, l’essere inscindibilmente vero uomo e vero Dio, “simile a noi in tutto fuorché nel peccato”, resta un mistero soggetto a differenti interpretazioni. Non a caso “Una trama divina. Gesù in controcampo”, l’ultimo libro di padre Spadaro, ha riaperto il dibattito nel Cattolicesimo e oggi, al suo interno, si confrontano due posizioni tra loro inconciliabili.

Una prima posizione, che viene ben espressa dalla “La Nuova Bussola quotidiana”, sostiene la doppia natura di Gesù con un “distinguo” importante: la sua umanità è “perfetta”, perfetta in sommo grado al punto che Gesù non può essere stato assolutamente condizionato dal contesto storico/sociale e culturale in cui ha vissuto (“Lui che è l’uomo perfetto, paradigma di tutta l’umanità possibile, modello a cui si è ispirato Dio per creare ciascuno di noi.”). L’operato concreto di Gesù e tutto il suo messaggio sono lineari, coerenti, privi di qualsiasi sviluppo e tanto più di qualsiasi riflesso ideologico limitante, frutto dell’adeguarsi alla mentalità del tempo. La cornice storica della dominazione di Roma, sotto cui Gesù e vissuto, la geografia fisica ed antropica di Israele e la lingua aramaica appresa nell’infanzia, l’ebraismo praticato fin da bambino in una umile famiglia di duemila anni fa, sono stati il contenitore in cui si è svolta la sua vita, ma non ne hanno influenzato alcuna scelta. L’uomo Gesù, secondo questa interpretazione, è vissuto sulla Terra, ma al di sopra della storia, quasi in un limbo in cui nessuna esperienza da lui fatta poteva incidere sulla sua formazione già completa.

Il libro di padre Spadaro propone invece una figura in cui, accogliendo l’umanità del Nazareno e le inevitabili conseguenze che essa comporta, attribuisce a Gesù quella caratteristica che contraddistingue ogni essere umano in quanto tale, nel corpo e nella mente, cioè il fatto che si evolve. Il corpo cambia e le esperienze -fatte nel corso del tempo e frutto dello specifico ambiente sociale in cui si vive- segnano la mente ed i pensieri. Il cambiamento del fisico e l’incremento delle capacità mentali durante la crescita sono tratti distintivi e inevitabili di ogni uomo.

Anche in Gesù ci sono stati momenti della vita in cui la sua umanità -intesa come impossibilità dell’omniscienza e contemporaneamente necessità di un scelta – appare più visibile. Già nei Vangeli, che pure non sono privi di una visione agiografica, edulcorata e perfino mitica (ad esempio i racconti della nascita e dell’infanzia), vengono presentate situazioni precise in cui appaiano i limiti di ogni umanità reale e non ideale.

Ricordiamo intanto le tentazioni nel deserto dove Gesù deve confrontarsi con il rischio della libertà di scelta, specifico della dimensione umana; in Matteo 11 lo stesso Gesù ricorda il ritratto che circola su di lui:  “Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e peccatori”, il profilo di una persona socievole a cui piace la tavola e che non teme – anzi ricerca- la compagnia dei marginali; la sua accettazione di elementi culturali dell’epoca, come la pena di morte per determinati reati (Matteo 18,6) oppure la formazione del gruppo ristretto dei suoi collaboratori (gli apostoli), solo maschi perché la società è patriarcale e non avrebbe compreso il ruolo decisionale della donna; in Matteo 24 la sua natura realmente umana  appare  nell’impossibilità di fare previsioni sul futuro; la sua agonia da crocifisso (Marco 15,34) è tipicamente umana nel dolore e nella disperazione fino al grido straziante nel sentirsi abbandonato da un Dio indifferente; ancora, Matteo 10,5 indica la visione iniziale che Gesù aveva del proprio compito (rivolgere la sua predicazione solo al popolo di Israele) mentre col passare del tempo (Matteo 28,19) la prospettiva cambia, così come avviene normalmente nell’ uomo in quanto tale.
In conclusione, ogni uomo è soggetto ad evoluzione e trasformazione interiori nel corso della sua vita e così Gesù.

Padre Spadaro ha analizzato Matteo 15,21 in cui Gesù incontra una donna siro-fenicia che implora il suo intervento per la figlia malata ed inizialmente rifiuta recisamente di aiutarla. Leggete prima il testo del vangelo e poi ascoltate il commento di padre Spadaro, che mette a fuoco l’umanità di Gesù nei suoi limiti inevitabili e contemporaneamente sottolinea l’altro aspetto tipicamente umano (per nulla divino) che consiste nel poter cambiare punto di vista: “Poche parole, tali da sconvolgere la rigidità di Gesù, da “conformarlo”, da convertirlo a sé…E anche Gesù appare guarito, alla fine si mostra libero dalla rigidità degli elementi teologici, politici e culturali dominanti nel suo tempo”.  Altri teologi cattolici avevano notato questo atteggiamento umano di Gesù, per esempio il cardinal Ravasi in “Le pietre di inciampo del Vangelo”. Scrive infatti a pagina 58 “…Gesù replica alla donna in modo sferzante con quello che era probabilmente un proverbio quasi razzista, cioè ai cani non si dà il pane destinato agli umani…Gesù è per così dire trasformato dall’esempio della donna straniera e potremmo dire che riceve una lezione di fede…questo comportamento di Gesù marca la sua reale umanità legata da una mentalità, ad un linguaggio, ad una sensibilità, ad una appartenenza”. 

L’articolo ha suscitato una reazione diffusa e scandalizzata da parte di numerosi siti e blog dei tradizionalisti, con accuse perfino di eresia perché, per costoro, “…Lui (Gesù) che è l’uomo perfetto, paradigma di tutta l’umanità possibile…Lui che, essendo Dio, è l’Onnipotente è libero dai condizionamenti dei costumi del suo tempo…”.

A difesa dell’interpretazione di padre Spadaro due interventi interessanti: papa Francesco in Famiglia Cristiana domenica 3 settembre ed il vescovo Staglianò su “La Nuova Calabria” che, rispondendo ai Tradizionalisti, che citano fino a nove dogmi infranti dall’articolo di padre Spadaro, scrive: “È la testimonianza dell’amore nella carne che spinge il dono della vita fino a morire, la misura dell’ortodossia del credente”.

L’immagine in evidenza è tratta da wikimedia commons

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