L’ARTE CI PUÒ AIUTARE A COMPRENDERE LA REALTÀ ATTUALE
I diritti spettano soltanto alla Persona

Possiamo ora trarre alcune conclusioni dal nostro lungo viaggio in cinque puntate nella storia dell’arte sul modo in cui le immagini della croce e del crocifisso sono mutate nel corso del tempo.

A partire dal XIII secolo l’immagine del Cristo Patiens (sofferente o morto) si diffonde dovunque e raggiunge i nostri giorni.. Ma, attraverso i secoli, assume di volta in volta caratteristiche particolari, al punto che possiamo individuare alcune sottospecie. Infatti, nella seconda metà del XV secolo abbiamo, soprattutto in Italia, la serie dei Crocifissi completamente nudi (Brunelleschi, Donatello, poi Michelangelo e botteghe) in cui l’interesse per l’anatomia del corpo umano – che appare integro e privo di ferite- diventa centrale.

Contemporaneamente si sviluppa il realismo iconografico del Sangue versato, che tocca il vertice con Mattias Grünewald (già nella sua meno famosa Crocifissione di Basilea) e che verrà proseguito con i Crocifissi torturati fino all’eccesso, criticati dalla Controriforma, che non a caso privilegerà la compostezza del Crocifisso (1632) di Velazquez, al Prado. Sempre nel XVII secolo appaiono i Crocifissi algidi alla Guido Reni, quasi non avessero subito la tortura della flagellazione, perfino aggraziati, col viso rivolto verso l’alto nella visione beata del Cielo che li attende.

Nel 1800 e 1900 i migliori artisti, più che seguire un modello precedente, tendono a fare scuola a sé. Ricordiamo tra i tanti Gauguin col Cristo Giallo, Chagall con la Crocifissione Bianca (molto apprezzata da papa Francesco), Roy de Maistre col Crocifisso simil cubista, e poi Dalì, Graham Sutherland, Guttuso, Bacon, ecc. I tratti in comune restano la scomparsa degli elementi che caratterizzavano il Cristo Trionfante e il riferimento al Cristo Patiens.

Oggi quale immagine del Crocifisso potrebbe meglio interpretare e contemporaneamente” illuminare” il tempo in cui viviamo?
Dipende da ciò che per ognuno di noi è l’elemento più qualificante della nostra epoca.

A nostro parere, in una realtà mondiale in cui crescono le divisioni sociali, politiche, religiose tra gli umani (quindi la sofferenza delle persone) il tratto che vorremo rimarcare come assolutamente necessario in quanto obiettivo universale, il tratto che il Crocifisso dovrebbe rappresentare sarebbe – accanto alla denuncia del dolore umano – quello dell’ecumenismo nel campo della fede e il suo pendant laico, lo spirito di tolleranza sul terreno politico e sociale.

Per la Chiesa di Roma il primo inno all’ecumenismo – dopo secoli di esclusivismo nei confronti delle altre religioni – è stato espresso nel Vaticano II (con la “Dignitatis Humanae”) e poi ripreso da papa Francesco, in particolare con il “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”. Ricordiamo soprattutto la frase “Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani”, concetto mai espresso prima con questa chiarezza e per il quale non ci si arrocca più, come Chiesa cattolica, dietro la Verità che essa solo possiede e che vuole imporre a tutti gli altri che ne sono privati.

Torniamo quindi alla domanda iniziale: esiste oggi qualche immagine di Crocifisso che possa – accanto alla riproposizione del dolore fisico – avere caratteristiche ”ecumeniche”, universali, non connotate da una fede particolare?
L’accostamento crocifisso-ecumenismo parrebbe impossibile perché ogni riproduzione di un uomo crocifisso rimanderebbe immediatamente alla religione cristiana, quindi sarebbe un segno di parte, l’espressione di una determinata fede.

Proviamo tuttavia ad osservare questo Crocifisso (Crocifisso n°2 del 1960, anno non a caso dell’inizio del Concilio Vaticano II). Su uno sfondo nero appare una figura grigio sporco con striature di colori scuri, che assomiglia ad una via di mezzo tra una Y e una T; essa rappresenta una parvenza di persona, con in alto, all’altezza della biforcazione delle due “braccia”, un ovale marrone, rigonfio, coperto di fili aggrovigliati, alla maniera di capelli. Si tratta della testa, chinata sul petto di qualcuno a braccia aperte, appeso a qualcosa perché si intravede alle sue spalle una specie di palo. L’autore è W. Congdon (1912-1998).

Congdon è stato una persona straordinaria non solo come artista. La sua vita fu profondamente segnata dall’esperienza, a 33 anni, di barelliere di ambulanza nell’American field service,durante la II Guerra Mondiale. Egli ha partecipato a diverse campagne militari fino a che non si è ritrovato, nel maggio 1945, nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, in Germania. Qui Congdon ha incontrato, per un intero mese, i sopravvissuti, donne e uomini, mairriconoscibili per la fame, le malattie, i maltrattamenti. Quello che ha visto e ciò che ha provato si scopre in alcune sue opere, come appunto in questo Crocifisso, il numero 2, e nella serie successiva (ne farà oltre 200).

La Croce, inizialmente simbolo di vittoria sulla morte, successivamente, col crocifisso, testimonianza della Redenzione e Anticipazione/Prefigurazione della Resurrezione, è quasi del tutto scomparsa nel buio dello sfondo, praticamente incollata alla figura pallida e anonima che appare centralmente. Si tratta di un corpo sfigurato per le sofferenze subite, al cui dramma possono fare riferimento tutti coloro che, indipendentemente dalla fede posseduta, in ogni latitudine del pianeta, attraversano la soglia del dolore.  

Congdon è andato oltre questa iconografia, realizzando un messaggio ancor più “universale”. Infatti, dopo il soggiorno in India, a Bombay, egli crea il Crocefisso 64, 1973. Mentre i Crocifissi precedenti mantenevano una forma umana, pur poco definita e persa sopra un brandello di croce, ora Congdon attua una ulteriore trasformazione con questa “Grande Larva”, a ricordo di ciò che egli ha visto nel suo viaggio in India. Non c’è più la croce, non appaiono più braccia e gambe, ma solo il “torso” e una “testa” reclinata su di esso, come uno dei tanti fagotti di morti, abbandonati sulla strada o sul pavimento di una stazione indiane.

Così il processo di identificazione dell’umanità dei migranti, dei profughi delle guerre, dei tormentati dalle carestie e dalle epidemie, può essere totale verso questo simbolo, completamente umano, della sofferenza nel mondo. Esso potrebbe stare appeso non solo in una moschea, sinagoga, tempio indù, pagoda e in qualsiasi chiesa cristiana, ma anche nelle scuole e negli edifici pubblici. Nel Crocifisso di Congdon non c’è più Cristo, ma una persona (forse un uomo oppure una donna) inizialmente pensata come ebrea di Nazareth, ma talmente irriconoscibile da poter diventare araba, asiatica, afro o latino-americana, europea. Il dolore qui non ha frontiere di sesso, nazionalità, cultura, ideologia, in esso si ritrovano tutti gli umani e per esso possono solidarizzare fino alla fratellanza.

Invece i Tradizionalisti religiosi (a cui fanno riferimento quelli politici) intendono continuare a tenere alta la fiaccola della “Verità”, di cui solo essi sono detentori e con la quale, un tempo, davano fuoco ai dissidenti. Infatti, a partire da una interpretazione degli stessi Evangelisti e dalle prime comunità cristiane, il cui riferimento era un Dio biblico totalitario e “geloso”, la teoria messa in pratica dalla Chiesa è sempre stata quella per cui “solo la Verità ha dei diritti, mai l’Errore”. Negare questa formula significava inevitabilmente cadere nell’”indifferentismo”, cioè nella via più diretta verso la scomparsa della morale e della virtù da una parte, e verso l’esaltazione dei desideri soggettivi ed egoistici dall’altra.

Oggi invece anche un cattolico può – a differenza di molti Padri della Chiesa, di Agostino e di Ambrogio, dei vescovi di Roma fino a Pio XII – affermare che i diritti spettano soltanto alla Persona (non alla Verità) come ha sempre sostenuto il pensiero liberale. Oggi anche un cattolico può condannare come intolleranza e fanatismo il pensare che “non è possibile garantire uguali diritti a chi crede nel vero dio e chi persegue nell’errore” (come scriveva l’indignato Gregorio XVI nel 1832, chiamando “delirio” la richiesta di libertà di coscienza e di culto).

Scrive il teologo Laboa:” Solo il Concilio Vaticano II introdurrà un mutamento radicale sul concetto di libertà religiosa. Nel corso della storia è possibile constatare la mancanza di rispetto nei confronti dell’uomo e spesso nella storia della Chiesa, la verità è stata più importante del proprio soggetto e dell’amore. La verità ha tutti i diritti, l’errore nessuno e le conseguenze sono state evidenti…”. Laboa si riferisce a tutti quei fatti storici di cui gli ultimi papi hanno chiesto scusa. Per evitare di ripeterli, dovrebbero non dimenticare mai che è l’Uomo il solo soggetto di diritti (tra cui quello di poter affermare la sua verità).

L’immagine in evidenza è tratta da: lombardiabeniculturali.it

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