Giù le mani da Chernobyl

Chernobyl  è il nome di una cittadina ucraina nota in tutto il mondo per l’incidente che il 26 aprile 1986 si è verificato nella centrale nucleare situata nelle sue vicinanze: un errore di procedura nel corso di un test di sicurezza aveva provocato il surriscaldamento e poi lo scoppio di uno dei 4 reattori e la fuga di una enorme quantità di materiale radioattivo. Alle decine di morti immediati ne seguirono centinaia di migliaia nei mesi e anni successivi per gli effetti delle radiazioni:  in Ucraina, Bielorussia e Russia soprattutto, ma anche  in altri paesi europei.
Per la gravità dei livelli di contaminazione dei territori circostanti, furono evacuate più di 300 mila persone, che non avrebbero mai più fatto ritorno nelle loro case. Dal 2000 tutti e quattro i rettori sono spenti e incapsulati  in sarcofaghi di metallo che dovrebbero proteggerci dalle radiazioni almeno per i prossimi 100 anni.

La tragedia di Chernobyl e i rischi che quel sito custodisce ci sono stati richiamati alla mente dall’attacco missilistico che il 23 Febbraio le truppe di invasione russe hanno scatenato anche sul territorio in cui si trova la dormiente centrale nucleare. Per fortuna si è verificato solo un modesto incendio negli edifici adiacenti e non vi sono state fughe di materiale radioattivo.

Ma accanto alla preoccupante possibilità che un nuovo “errore” umano possa farci rivivere il dramma di 36 anni fa, c’è un altro rischio al quale bisognerebbe prestare attenzione. Lo ha messo in evidenza il settimanale inglese The Economist in un articolo pubblicato il 16 marzo scorso.

Oggi Chernobyl non è solo  una città fantasma. Nel corso degli anni è diventata un importante laboratorio di ricerca sugli effetti che le radiazioni possono avere sugli esseri viventi: umani, animali, piante.

Dal 2000 Timothy Mousseau dell’Università della Carolina del Sud e Anders Moller dell’Ecology, Systematics and Evolution Laboratory di Orsay, vicino a Parigi, gestiscono il Chernobyl Research Initiative Lab in collaborazione con una dozzina di colleghi ucraini. Hanno osservato come gli animali e le piante in quello che ora è, per impostazione predefinita, un santuario della fauna selvatica, si sono adattati al loro ambiente radioattivo”.

Negli anni hanno pubblicato più di 120 articoli. Hanno iniziato studiando la genetica delle rondini che vivono a distanze variabili dal reattore. Hanno scoperto che le mutazioni rendevano le dimensioni del corpo degli uccelli più variabili nelle aree ad alta radiazione. Hanno poi dimostrato che le popolazioni di uccelli colorati sono diminuite più di quelle di uccelli meno colorati, supportando una tesi di vecchia data secondo cui i colori vivaci sono come un segnale di buona salute (qualcosa che è improbabile in un luogo così ostile). Hanno anche trovato prove che gli uccelli intorno a Chernobyl hanno sviluppato una tolleranza alle radiazioni, dimostrando che coloro che vivono lì hanno densità di popolazione più elevate rispetto ai conspecifici in circostanze simili vicino allo stabilimento di Fukushima in Giappone (questo reattore nucleare si è sciolto solo 11 anni fa, anziché 36).

Tutto questo lavoro – scrive l’Economist – è stato interrotto dopo l’invasione dell’Ucraina. E sono a rischio di chiusura anche altri importanti esperimenti:

“Un esperimento con fototrappole della durata di sei anni che registra la distribuzione e l’abbondanza dei mammiferi; un progetto che monitora gli effetti delle radiazioni sui microbiomi dei cani selvatici; uno studio sulla genomica, fisiologia, riproduzione ed ecologia dei roditori e un esperimento in collaborazione con la NASA, l’agenzia spaziale americana, per capire come le piante si adattano all’esposizione cronica alle radiazioni, qualcosa che potrebbe essere importante se i raccolti venissero mai coltivati ​​a bordo di veicoli spaziali o su corpi celesti con poca o nessuna atmosfera che intercetta le radiazioni”.

E c’è infine – denuncia il giornale inglese – il rischio che tutto il sito possa essere danneggiato in modo permanente. Ad esempio, che il rumore dei combattimenti porti la fauna selvatica a fuggire dalla zona. E se, altro esempio, la zona fosse stata disseminata di mine, ciò rappresenterebbe un pericolo sia per la fauna selvatica che per i biologi che vi lavorano.

L’immagine in evidenza è tratta da: today.it
Le altre immagini sono tratte, nell’ordine; da: ilmessaggero.it; editoriaresponsabile.com; economist.com; tusciaweb.eu

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