Dal jacklighting allo scemo di Posillipo
Riprendo il filo del discorso iniziato con la recensione de Il versante animale di Bailly e precisamente dalle foto a corredo, scattate da George Shiras (1859-1942), un avvocato nato in Pennsylvania, eletto al Congresso e appassionato di natura, ma anche di caccia e pesca. Si pentì e divenne un convinto ambientalista, sostenne la creazione di parchi nazionali e un alce, da lui scoperta a Yellowstone, porta il suo nome, Alces alces shirasi.
Da cacciatore aveva imparato dai nativi della tribù Ojibwa del lago Superiore e del lago Huron nell’odierno Michigan, la tecnica del jacklighting: un fuoco acceso in una padella sulla prua di una canoa abbaglia la preda che si immobilizza e permette al cacciatore, nascosto nell’ombra, di colpirla.
Da naturalista adattò questa tecnica alla cattura dell’immagine degli animali in libertà: un’esca attira gli animali e un complesso sistema di funi, collegato al flash e all’otturatore di una macchina fotografica, lo ritrae.
Il flash, una novità per quell’epoca, funzionava con l’esplosione di polvere di magnesio e la luce era così intensa che la preda ne era abbagliata e rimaneva immobile per il tempo necessario alla posa. E in quell’attimo quasi magico si fissa lo sguardo fra uomo e animale, il vero tema della ricerca del libro di Bailly. (Nella foto a fianco: George Shiras e il suo assistente John Hammer a bordo della loro canoa equipaggiata con jacklight, Lago Whitefish, Michigan, 1893 © National Geographic)
Le foto realizzate con il flashing trapping sono notturne e Shiras donò le sue 2400 lastre alla rivista National Geographic, che ancora le conserva digitalizzate in archivio e sono consultabili gratuitamente.
La prestigiosa rivista ne aveva pubblicato 74 nel luglio del 1906 ed era quella la prima volta che usciva un numero monografico con così numerose immagini, troppe per molti membri della redazione e del consiglio di amministrazione della National Geographic Society.
Il geologo Alfred H.Brooks criticò la scelta sostenendo che la rivista si stava trasformando in una galleria di immagini. Ma l’uscita di quel numero rappresentò una svolta nella politica editoriale della rivista che oggi è prestigiosa anche per i servizi fotografici naturalistici pubblicati. Il lungo articolo e le foto divennero nel 1935 un libro, Hunting Wild Game With Flashlight and Camera (Qui per scaricare il pdf; nella foto sopra: Un alce americano nella nebbia, Minnesota, 1909 © National Geographic)
Sonia Voss, curatrice del libro In the Heart of the Dark Night, sostiene che per Shiras la fotografia […] era un mezzo indispensabile per rivelare l’ignoto e attestare la bellezza di un mondo a rischio. Il modo in cui vedeva la fotografia non solo da un punto di vista estetico ma anche come mezzo per documentare la natura e formare un nuovo rapporto con essa è di grande importanza storica e ha spianato la strada alla lunga storia della fotografia naturalistica.
(nella foto accanto: una lince sulla sponda del Lago Loon, Ontario, Canada, luglio 1902 © National Geographic)
Dicevo che ho acquistato una fototrappola, un moderno meccanismo per catturare immagini di animali in libertà: come faceva Shiras, ma dopo più di 150 anni tutto è molto più semplice. I sensori a raggi infrarossi hanno sostituito le funi d’inciampo, intercettano calore e movimento a metri di distanza, sia di giorno sia di notte, i led illuminano o meno e la macchina registra fotogrammi singoli o sequenze filmiche che riversa in una scheda di memoria anche molto capiente. La fototrappola resiste alle intemperie e lavora in autonomia anche per parecchie settimane e nei modelli più sofisticati può anche inviare file via wireless. Le procedure di predisposizione sono facili, ma gli ingredienti che riguardano la preparazione della caccia continuano invece ad esserci tutti: bisogna conoscere l’ambiente e gli animali che lo frequentano, occorre cercare il posto adatto, immaginare quali possano essere le prede per stabilire direzione di mira, altezza dal suolo, inclinazione, programmare durata delle riprese e risoluzione delle immagini e provare e riprovare con pazienza.
Ho raccontato alle mie nipotine di questo nuovo giocattolo e immediatamente è scattata la voglia di tentare la fotocaccia. Dopo la prossima villeggiatura estiva in campagna, insieme scriveremo una relazione “scientifica” e chiederemo ospitalità nel blog per raccontarla.
E facciamo infine la conoscenza di un ultimo personaggio, il fotografo del movimento, Étienne-Jules Marey (1830-1904), fisiologo, cardiologo, inventore francese.
Non era propriamente un fotografo, finalizzò la ripresa fotografica del movimento ai suoi studi sulla fisiologia, ai tempi, una scienza relativamente nuova del corpo umano. Nel 1882 progettò e costruì il fotofucile per riprendere in sequenza rapida il volo degli uccelli e le sue esperienze furono di fondamentale importanza per la progettazione aeronautica in quanto il volo degli uccelli era finalmente descritto nei minimi particolari (un esempio di questa sua attività è la foto “volo di pellicani“, utilizzata in questo post come immagine in evidenza)
In assenza di pellicola flessibile, utilizzò una lastra sensibile circolare di vetro con dodici fotogrammi. Cuore dell’apparato era un otturatore con tempo breve di 1/720 di secondo e motore a orologeria. (Qui accanto: incisione che illustra il fucile fotografico pubblicata su “La Nature” n. 464, 22 aprile 1882)
Il suo soggiorno e la sua attività a Napoli presso la Stazione zoologica Anton Dohrn aveva anche risvolti romantici, una relazione con madame Vilbort, moglie di Joseph Vilbort, direttore del giornale francese Le Globe. Madame Vilbort si trovava là per curare, grazie al clima mite, una sua malattia, e Marey la seguì. I due comprarono insieme villa Maria, a Posillipo, nel 1880. A Napoli Marey svolse parte degli studi per la realizzazione dei suoi strumenti precinematografici, e proprio alla Stazione Dohrn studiò anche il movimento dei pesci tenuti nelle vasche dell’acquario. L’uso del suo fucile fotografico, con il quale puntava gli uccelli ma senza sparare, apparve piuttosto stravagante ai napoletani dell’epoca, che pare si riferissero talvolta a Marey come allo “scemo di Posillipo”. (da Wikipedia)
Sicuramente mi sfugge qualcosa, ma perché mai un cacciatore che può imbracciare un fucile, inseguire una preda, appostarsi per ore, prendere la mira e premere il grilletto, non potrebbe accontentarsi di questo, perché non rinunciare all’ultimo atto della sequenza, quello dello sparo, del proiettile che uccide? C’è tutto o quasi, la soddisfazione di aver catturato l’immagine, di esser riuscito vincente nella competizione dovrebbe compensare il non sentir sobbalzare sul fianco il carniere pieno. Eppure il fotofucile, pur con il suo aspetto così aggressivo, non ha avuto successo fra gli appassionati dell’arte venatoria.
Chissà se qualcuno può darmi qualche elemento per riflettere e capire?
E infine, per quanto riguarda il sentiero doganale alle Cinqueterre, a Punta del Mesco c’era la casa dei doganieri di cui scrive Eugenio Montale:
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera …
Fu distrutta quando il poeta aveva sei anni. In cima al promontorio ora ci sono le rovine dell’eremo di Sant’Antonio e, proprio sul ciglio, i resti malconci di una stazione semaforica.
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