Cosa cambia nel Pd

È naturale che dopo il cambio di segretario ci si chieda quali elementi di novità potrebbero caratterizzare d’ora in poi l’azione di questo partito. Ed è altrettanto naturale che a pochi giorni dalla conclusione delle primarie che hanno designato la giovane Elly Schlein alla guida del Pd si possono fare solo considerazioni di carattere generale (in riferimento a quanto è emerso nella contesa elettorale).  

La prima considerazione, sulla quale concordano tutti i commentatori, è che il Pd si sposta decisamente a sinistra. Che cosa questo precisamente significhi non è però chiaro. Goffredo Bettini, il principale ideologo del “nuovo corso”, aveva scritto nel suo ultimo libro che bisogna “recuperare la scintilla della Rivoluzione d’ottobre”. Elly Schlein, nella sua prima dichiarazione da neoeletta, ha promesso che ci sarà un “profondo cambiamento” nel partito.

Tutti i commentatori danno per scontato che in pratica il cambiamento promesso consisterà sostanzialmente in un definitivo taglio netto con quanto resta del riformismo renziano. Mentre, sul piano organizzativo, l’idea di un partito nuovo, di cui tanto si è parlato nei dibattiti congressuali  e anche nei documenti programmatici dei candidati alla segreteria (compreso il documento della Schlein) sembra destinata a rimanere vuota retorica. “Non ci serve – aveva scritto la candidata Elly Schlein – un partito degli eletti, né un partito delle correnti, ma un partito che dia voce alla sua base, perché senza la base, scordatevi le altezze. Un partito che si fidi della sua comunità, che sappia valorizzare e mettere a valore le competenze e i saperi di militanti, amministratrici e amministratori, e rappresentanti nelle Istituzioni”.

Ma l’andamento di questo congresso, e soprattutto l’introduzione delle nuove modalità con le quali si è giunti alla nomina del segretario, ridimensionano fortemente la retorica del dare voce alla base:  in realtà militanti, amministratrici e amministratori e rappresentanti delle istituzioni che hanno votato nei circoli del Pd avevano dato a Bonaccini il 52% e solo il 34% alla Schlein (che invece ora è alla guida del partito).

Per quanto riguarda il programma, nella sua prima dichiarazione a caldo da segretaria del Pd, Elly Schlein ha ribadito che “le priorità sono il contrasto a ogni forma di disuguaglianza, il diritto a un lavoro dignitoso, la necessità di affrontare con massima urgenza l’emergenza climatica. Dobbiamo ricostruire fiducia là dove s’è spezzata”.
Tra le tante cose, anche interessanti, messe da Elly Schlein nella sua mozione congressuale, due ci hanno colpito in modo particolare e vogliamo metterle qui brevemente in evidenza.

La prima riguarda un tema classico della sinistra: la redistribuzione della ricchezza. Dice Elly Schlein: “Dobbiamo riscoprire una parola fondamentale: redistribuzione. Delle ricchezze, del sapere, del potere, del tempo”; “bisogna tornare a dire con forza che il welfare non è un costo. È un investimento”; “È necessario investire nelle infrastrutture sociali e nei servizi, lottare per un grande investimento nella sanità pubblica e universalistica, investire nell’istruzione pubblica come primo grande strumento di emancipazione sociale”.

Tutte cose sacrosante. Ma il punto non è se il welfare va sviluppato o meno. Il punto è come. In quali modi, in quali tempi, con quali risorse. Per essere brevi: colpisce il fatto che in un programma in cui si pone forte l’accento sul ruolo di redistributore delle ricchezze da parte dello Stato, non vi sia una sola riga per dire qualcosa su come lo Stato si dovrebbe impegnare a farle aumentare le ricchezze da redistribuire. Si ripete solo il vecchio ritornello della necessità di “un nuovo modello di sviluppo”.

La seconda cosa  riguarda il particolare accento posto sulle battaglie identitarie.
Elly Schlein le pone al centro di tutto. Sembra che per lei battaglia politica e battaglia identitaria (soprattutto quella di genere) coincidano: “Dobbiamo pensare e realizzare ogni politica pubblica guardando al mondo attraverso una dimensione di genere”; “Una sinistra all’altezza delle sfide del presente non può che essere femminista”.

E partendo dal femminismo lo sguardo viene allargato a tante altre battaglie identitarie: “Tutte le nostre rivendicazioni non sono slegate tra loro. Ognuna di esse è connessa all’altra, perché molteplici sono le esperienze di vita che una stessa persona può attraversare, e le discriminazioni che possono colpire ogni persona sono almeno tante quante sono le sfaccettature delle nostre molteplici identità. Questo insegna l’approccio intersezionale, che i sistemi discriminatori e oppressivi non agiscono isolati ma interagiscono tra loro rafforzandosi. Quindi non abbiamo scelta: dobbiamo unire le lotte ….”

La scelta dell’approccio intersezionale, a nostro avviso, non è piccola cosa che si possa mettere con nonchalance nel programma di un partito che ha una lunga tradizione di lotte politiche e sociali alle spalle, anche quando, come dice Bettini, vorrebbe “recuperare la scintilla della Rivoluzione d’0ttobre”.

I sostenitori dell’approccio intersezionale negano che vi possano essere modi altrettanto o più efficaci dell’intersezionalità per contrastare il razzismo o il sessismo o qualsiasi altra forma di discriminazione. E spesso negano anche che vi siano stati risultati significativi da parte dei movimenti che hanno fin qui affrontato il contrasto alle discriminazioni con approcci liberali ed egualitari, ovvero da parte dei movimenti per i diritti civili (Martin Luther King Jr., per fare un esempio) e per i diritti umani universali.

Secondo la dottrina intersezionale, è l’identità di gruppo che stabilisce il modo in cui si comprende il mondo e il modo in cui si viene compresi. Premessa, questa, per un totale rifiuto dell’universalismo liberale a favore di una politica identitaria.

Ci chiediamo: in base a quale evidenza l’autoidentificazione identitaria (e quindi la consapevolezza di subire una discriminazione sociale per il fatto di essere nero o donna o omosessuale ecc) deve necessariamente procedere senza tendere a una certa universalità (e quindi alla consapevolezza di essere una persona e, in quanto tale, avere il diritto di essere trattata allo stesso modo delle altre persone indipendentemente dalla propria identità?

Una tale operazione implica la volontà di preservare le strutture e le istituzioni di democrazia laica e liberale e perfezionarle. Invece, per l’approccio intersezionale – come spiegano in un recente saggio Helen Pluckrose e James Lindsay(1) – non si tratta di affinare i lasciti dei movimenti per i diritti civili, ma di rovesciarli per fini rivoluzionari.

L’approccio dell’uguaglianza, “quello che cerca di estendere alle donne gli stessi diritti e privilegi che hanno gli uomini, identificando le aree di disparità di trattamento ed eliminandole attraverso riforme legali” è criticato dagli intersezionalisti, che sono invece per “l’affermazione della differenza”.

Ciò rimanda all’idea che “l’appartenenza a un gruppo emarginato fornisce un accesso speciale alla verità”.
Sono i presupposti di una Teoria che tende ad esasperare il relativismo culturale. E del resto non è raro trovare, tra gli adepti dell’approccio intersezionale (figlio della sociologia postmodernista sviluppatasi nei campus universitari americani) persone che negano la validità delle acquisizioni del pensiero scientifico moderno e riversano il loro scetticismo filosofico in forme di attivismo che hanno trasformato l’impegno sociale in una sorta di religione (ma su questo tema avremo modo di ritornare).

Tutto questo fa pensare che la svolta che si prospetta per il Pd sarà veramente epocale. E tutto questo con l’obiettivo, ormai ossessione,  di “far ritornare milioni di elettori delusi a votare Pd”: il refrain che ha ininterrottamente ripetuto il gruppo dirigente del Pd da cinque anni a questa parte, dopo la catastrofica sconfitta alle elezioni politiche del 2018 e dopo la più recente e ancora più catastrofica sconfitta del 2022.

La cosa strana è che la candidata anti establishment per eccellenza è stata fortemente voluta ed appoggiata da gran parte della vecchia nomenklatura che ha guidato in questi anni il Pd (tra essi: Nicola Zingaretti, Andrea Orlando, Goffredo Bettini, Dario Franceschini, Enrico Letta, Francesco Boccia (nonché gli “esterni” Roberto Speranza e Pier Luigi Bersani).

Elly Schlein si arrabbia quando le dicono che dietro la sua elezione c’è la vecchia nomenklatura del Pd e risponde che questa è una affermazione sessista. La risposta della Schlein contiene il riferimento ad un problema (purtroppo) reale. Ma non basta una battuta acuta (e neppure vedere del sessismo dappertutto) per spiegare una storia piuttosto singolare come quella della sua elezione alla guida del Pd. (Elly Schlein fino a pochi giorni prima delle primarie non era neppure iscritta a quel partito e gli elettori iscritti hanno addirittura espresso a stragrande maggioranza parere sfavorevole alla sua elezione).

(1) Helen Plukrose, James Lindsay “La nuova intolleranza”, Linkiesta Books, Milano 2022

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L’immagine nel testo è tratta da: pagellapolitica.it

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