La formazione del governo Conte II: i protagonisti /1

All’origine di tutto, come sappiamo, vi è stata la decisione del ministro Salvini (era l’8 agosto) di presentare in Senato una mozione di sfiducia al governo di cui era pure vice premier. Lo stesso giorno, alla fine di un comizio a Pescara, Salvini ha dichiarato di voler andare subito al voto e chiedere agli italiani i “pieni poteri”.

Il 10 agosto i giornali riferiscono di una “idea pazza”(copyright Stefano Feltri) dell’ex premier Matteo Renzi: “per evitare le urne, un nuovo governo di almeno un anno che si regga su un accordo tra il M5s e il Pd”. Il giorno prima il segretario del Pd Zingaretti aveva rilasciato una dichiarazione nella quale sosteneva invece l’idea di “andare al voto subito e senza le primarie. No a governi tecnici e a Conte bis, anche se lo chiede Mattarella”, perché “Salvini e Di Maio devono prendersi la responsabilità della prossima manovra finanziaria”. Sulla linea del voto subito anche Davide Casaleggio: “Salvini gioca d’azzardo con la vita degli italiani. Al voto prima possibile, ma dopo il taglio dei parlamentari”.

La maggior parte dei commentatori concorda nel ritenere che quella decisione di Salvini sia stata un atto di “leggerezza”, un azzardo del quale certamente Salvini si sarà pentito (come mostrerebbe il fatto che poi ha cercato di convincere Di Maio a non siglare l’accordo con il Pd).
Ma un azzardo basato anche su una qualche consapevolezza della situazione. Quelli che Salvini (ma non è il solo) chiama, con una espressine ormai abusata, i poteri forti, ma più banalmente gli stessi imprenditori del nord che lo hanno sempre votato e gran parte di tutti coloro che in questo paese investono e vi svolgono i propri negozi ne avevano ormai le scatole piene di un governo che invece di assecondare gli sforzi per una ripresa economica produceva ostacoli. E lo dicevano chiaramente e apertamente in tutte le occasioni su tutti i giornali e con tutti gli altri mezzi di comunicazione.
Ma Salvini che era (di fatto) il principale leader di quel governo e, perciò, il principale responsabile di una situazione divenuta insostenibile, non aveva alcuna strategia per risolverla. Il governo del cambiamento non aveva alcuna strategia per il cambiamento, la sua vera cifra era l’improvvisazione, il pressapochismo, l’incompetenza.  (Aveva invece, ed era anche il principale punto di contatto tra Lega e M5s, una strategia per danneggiare la democrazia rappresentativa, che tutti i movimenti populisti e sovranisti considerano il vero nemico da combattere).
L’azzardo di Salvini si spiega dunque, almeno in parte, con la necessità di trovare una via di uscita, anche considerando il fatto che in tempi brevissimi quel governo sarebbe stato chiamato a varare una manovra economica lacrime e sangue per tentare di salvare il paese dalla recessione. Molto probabilmente il grande consenso nei confronti della Lega sarebbe in buona misura evaporato. Quindi meglio tornare al voto e, ad ogni buon conto, capitalizzare il consenso costruito a furia di promesse mirabolanti. (Quando non sanno che pesci pigliare i populisti reclamano il ritorno alle urne, dare voce al popolo è il toccasana di tutti i mali).

La soluzione auspicata da Renzi per la crisi di governo è stata poi sposata (dopo una iniziale titubanza) sia dal segretario del Pd Nicola Zingaretti sia dal garante del M5s Beppe Grillo e, il 22 agosto, sono iniziate le trattative tra i due partiti per la messa a punto di un accordo e di un programma sulla cui base formare un nuovo governo. Il 27 agosto il Pd e il M5s hanno ufficializzato il loro sostegno a un governo Conte bis. Il 28 agosto Di Maio comunicava al Presidente della Repubblica: “C’è accordo politico con il Pd su Conte per provare a formare un governo di lungo termine”. Il Conte bis, come sappiamo, vedrà poi la luce il 5 settembre. Nessuno avrebbe potuto prevedere una cosa del genere.

La presa di posizione di Beppe Grillo e di Nicola Zingaretti è stata importante per la riuscita dell’operazione.

Zingaretti  avrebbe preferito andare al voto subito, non perché fosse sicuro di vincere ma perché (dicono i maligni) sarebbe stato il modo migliore per liberare il partito dalla folta corrente renziana (essendo la compilazione delle liste elettorali una prerogativa del segretario in carica). Comunque sia, se alleanza doveva esserci con il M5s questa, ha precisato Zingaretti, doveva avere una prospettiva di lunga durata. Quindi non proprio la proposta renziana di un accordo con il M5s come male minore per mettere al sicuro il paese dalle mire di Salvini. Goffredo Bettini, che è il principale consigliere di Zingaretti, aveva parlato fin da subito di “accordo strategico”. E Francesco Boccia, rappresentante dell’ala più anti-renziana del partito, è giunto a non escludere la possibilità di una “fusione” tra Pd e M5s. Tra il Pd e il M5s “l’alleanza – dice Boccia –  non è affatto anomala. Abbiamo la stessa sensibilità ambientale, le stesse pulsioni sui temi del lavoro e da qualche mese anche punti di contatto evidenti sul rafforzamento dell’Unione europea”. In fondo, aggiungiamo noi, non è difficile rendersi conto che vari punti del programma dei penta stellati sono frutto di una estrapolazione di temi e principi del vecchio Partito Comunista riproposti in chiave più marcatamente anti sistema.
Insomma, ritorno del Pd al governo del paese, insieme al M5s, anche come occasione per un radicale cambiamento di linea politica. Basta col riformismo liberale. Ritorno a un sano riformismo novecentesco, come va predicando Gianni Cuperlo, uno dei principali ideologi del ritorno al passato, che all’indomani della sconfitta elettorale del marzo 2018, addebitandone tutto il peso all’ex premier, aveva scritto nel suo libro “Il Viaggio”: “Bisogna decidere quale lingua ci distinguerà. Bisogna farlo adesso, perché nei vent’anni passati siamo usciti troppe volte con l’abito sbagliato”.

L’unica idea chiara all’interno del M5s era l’idea di evitare le urne: le elezioni subito avrebbero potuto condurre a risultati disastrosi, persino all’estinzione del movimento. I giornali, riferendosi a Di Maio, hanno usato espressioni riesumate dal linguaggio politico degli anni 60 del secolo scorso: hanno parlato di “politica dei due forni”, perché teneva la porta aperta sia ad una possibile alleanza con il Pd sia ad una rialleanza con la Lega. Non sapendo bene cosa fare l’unica sua vera preoccupazione era mantenere la guida del movimento e rivendicare, per se e per i suoi, posti e ruoli di primo piano. Ad esempio, nelle trattative con il Pd, Di Maio ha posto come condizione preliminare che il suo amico Conte fosse riconfermato premier e a lui stesso fosse riservato un ministero importante. Quale rapporto ci fosse tra queste condizioni e il bene del Paese non è dato saperlo. A interrompere questa condotta di basso profilo è intervenuta una presa di posizione del vero leader del Movimento. Beppe Grillo si è dichiarato favorevole a un accordo col Pd. Del resto l’esperienza di governo con la Lega era stata segnata da una continua emorragia di consensi per il Movimento: ha perso quasi tutte le elezioni locali e regionali, dimezzando in pochi mesi il proprio peso elettorale. Ma Grillo non parla di questo, parla di impegno a cambiare e modernizzare il Paese. L’atteggiamento di Beppe Grillo è ben sintetizzato in un video apparso sul suo blog, “Sono esausto”, nel quale esordisce dicendo: “Ma veramente non ci accorgiamo del momento storico, del momento straordinario che è questo?”… “c’è da riprogettare il mondo, rivedere tutti i paradigmi della crescita”. E dopo un excursus sui cambiamenti tecnologici in atto, dice: “dovete sedervi lì e pensare e parlare di queste cose, in modo straordinario, e voglio delle euforie, sentirvi simpatizzanti, perché questa è una nazione straordinaria con della gente meravigliosa. E invece ci abbrutiamo, con … il posto lo do a chi, i dieci punti i venti punti (del programma – ndr). Basta!  … abbiamo un’occasione unica, unica, non si ripeterà più una occasione così … e allora cerchiamo di compattare i pensieri, cerchiamo di sognare un attimo … abbiamo una scelta di tecnologia immensa … la politica è scegliere che strada bisogna prendere, che tipo di società vogliamo, come ci rapportiamo con gli altri. … E invece ci perdiamo in questa roba qui”.

Considerando i contenuti del programma del nuovo governo, quelli messi per iscritto nel testo dell’accordo, abbiamo espresso un certo ottimismo. Ma l’interpretazione che Di Maio cerca di dare dell’accordo di governo col Pd desta non poche preoccupazioni e ci induce a moderare la nostra naturale propensione all’ottimismo .
Motivo di preoccupazione non è, come per alcuni, la rapidità con la quale è avvenuto il cambio di prospettiva. In fondo il M5s aveva considerato la possibilità di un governo con il Pd fin dal marzo 2018, subito dopo la vittoria alle politiche. Il motivo principale è un altro: le cronache ci dicono che Di Maio non perde occasione per affermare che “il programma del M5s non è cambiato”.
Sorge il dubbio che il M5s non voglia realmente mettersi alle spalle la stagione del populismo cialtrone.
Cosa vuole dire il capo politico del M5s quando dice che il programma del movimento non è cambiato?
Non può certo riferirsi al programma che è stato presentato alle camere il giorno dell’insediamento del nuovo governo (abbiamo visto che lì di cambiamenti ce ne sono eccome). È più verosimile che si riferisca al programma del Movimento in quanto tale, ai suoi obiettivi generali, alla sua ideologia, alla sua filosofia. E quindi  ciò che fa Di Maio è una sorta di rassicurazione rivolta ai simpatizzanti: quello che abbiamo stipulato con il Pd è un compromesso dettato da necessità contingenti, ma la nostra identità non è mutata, siamo sempre gli stessi.
Ma attenzione! Forse il messaggio di Di Maio non è rivolto solo ai suoi simpatizzanti. Ribadire che la propria identità non è mutata corrisponde a conferire meno valore al compromesso realizzato (e induce anche a pensare che il M5s, in fondo, si considera libero di dettare condizioni ulteriori).
Tutto ciò getta un’ombra sulla affidabilità del M5s di cui il presidente del Consiglio dovrebbe tener conto, se non altro per capire qual è la parte dalla quale possono venire le insidie maggiori al suo governo.
Ma al di là dei rischi per il governo, l’atteggiamento del capo politico del M5s può avere anche degli effetti sul dibattito interno ai suoi alleati. NeI Pd, come abbiamo visto, c’è una contrapposizione tra chi è propenso a considerare l’accordo con il M5s solo un fatto dettato dalla necessità (e quindi transitorio) e chi invece punta ad assumerlo come un fatto strutturale (e quindi destinato a mutare l’identità stessa del partito).
La differenza tra questi due modi di intendere la natura dell’operazione che ha portato alla nascita del governo giallorosso non è cosa da poco. E sarà interessante seguire l’evoluzione degli eventi.

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