Emergenza educativa

Secondo alcuni osservatori  la scuola italiana al tempo del coronavirus si sta rivelando poco resiliente, cioè non sembra essere in grado di fare di necessità virtù trasformando le limitazioni imposte dalla crisi pandemica in una occasione per ripensare se stessa e tentare di dare risposte nuove a problemi che già c’erano ma che l’emergenza sanitaria ha fortemente acuito.

Naturalmente, quando si fanno tali considerazioni non si intende fare di ogni erba un fascio.  Si sa che il nostro sistema scolastico funziona a macchia di leopardo. Esistono realtà in cui insegnanti e dirigenti, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, stanno introducendo significative innovazioni nel loro modo di fare scuola, ad esempio ricorrendo a metodi diversi da quelli della lezione frontale ed usando una pluralità di approcci organizzativi per creare apprendimento da remoto. Anche molti genitori si sono assunti una funzione di supporto alla scuola e di sostegno nelle attività di apprendimento dei propri figli. E accanto a insegnanti e genitori, in alcuni casi, vi è l’impegno di istituzioni, associazioni ed agenzie pubbliche e private che offrono il loro contributo di esperienze, conoscenze e strumenti.

Ma la situazione complessiva non è così e desta, invece, forte preoccupazione.
La chiusura prolungata delle scuole e la Didattica A Distanza funzionano molto spesso  come fattori di disuguaglianza, che a sua volta incentiva l’aumento di un fenomeno che nel nostro paese ha già dimensioni preoccupanti, ovvero la dispersione scolastica.

Secondo il presidente del sindacato Anief, “la didattica a distanza ha messo a nudo gli effetti del digital divide che purtroppo continua a imperversare nel nostro paese, con gli alunni che diventano vittime innocenti di questo intollerabile gap di conoscenze e soprattutto di accesso alle nuove tecnologie digitali ed interattive. … Affrontare questo problema permetterebbe di combattere pure la dispersione scolastica, altra conseguenza diretta della chiusura forzata delle scuole e della didattica a distanza”.

La didattica a distanza –dice la sociologa Chiara Saraceno- ha aumentato le diseguaglianze tra studenti perché con la chiusura delle scuole “è mancato un luogo in cui tutti i bambini potessero avere la stessa cosa. Non avere i soldi necessari per pagare gli strumenti tecnologici e la connessione veloce necessari per la didattica a distanza ha determinato disparità nell’accesso all’istruzione, ma anche disuguaglianze culturali”. Va pure considerato che “la didattica a distanza, così come è fatta oggi, richiede una capacità di attenzione e di concentrazione molto più alta di quella in presenza. E stanca molto di più”. E aggiunge: “Anche avere o non avere i genitori in grado di darti una mano ha fatto la differenza, così come lo spazio a disposizione a casa”. Laddove non c’è una famiglia in grado di supportare questo tipo di insegnamento – concorda il presidente della comunità di Sant’Egidio – il disagio per i bambini è enorme.

C’è poi un aspetto, che viene quasi sempre trascurato nelle cronache giornalistiche: la stagione della didattica a distanza sta mettendo a nudo anche vecchi limiti pedagogici della didattica in presenza che viene solitamente praticata nelle nostre scuole, la cosiddetta “didattica tradizionale”, che ha nella “lezione frontale”” la sua componente fondamentale. Una didattica che da molto peso alla trasmissione del sapere e trascura quasi completamente la sua costruzione, la pratica della ricerca e del lavoro di gruppo; privilegia l’istruzione piuttosto che l’educazione, la cognizione piuttosto che la metacognizione. Limiti cioè di una impostazione basata su un percorso “standard”, che tende a fare del gruppo classe un unicum tenendo in poco conto i differenti ritmi e stili cognitivi degli allievi.
Per farla breve, la didattica tradizionale ha il vantaggio che è relativamente facile da organizzare, ma tende a mettere l’allievo in una condizione di passività.
Se la DAD fa ricorso a questa impostazione pedagogica la conseguenza è spesso una riduzione della partecipazione dell’allievo, un aumento delle difficoltà di apprendimento ed una maggiore fatica nello studio. Apprendere da una lezione frontale e in più da remoto (una condizione che aumenta l’isolamento dell’apprendente)  è molto difficile.

Sulla situazione generale che si è determinata, il giudizio della sociologa Chiara Saraceno è molto netto: “All’inizio della pandemia nessuno era pronto, ma quello che è stato fatto dopo non è stato sufficiente”. “Io sono esterrefatta – afferma- che non si sia fatto niente durante le vacanze estive, per esempio non si sono fatti corsi di recupero. Adesso tutti stanno facendo fatica, studenti ed insegnanti”. Purtroppo nel nostro Paese “la scuola non è considerata una priorità, si è investito pochissimo negli anni, sia nell’edilizia scolastica sia nella formazione degli insegnanti. Nel Recovery Plan ci sono pochi soldi per la scuola e quella dell’infanzia è dimenticata”.

La domanda che sorge spontanea è:

  • Cosa si può fare nel breve periodo (sul piano organizzativo ma anche sul piano della individuazione delle metodologie didattiche) per ridurre al minimo e possibilmente azzerare gli effetti di disuguaglianza che si sono palesati nell’attuale modo di fare la didattica a distanza?

L’immagine in evidenza è tratta da: repubblica.it
Le altre immagini sono tratte, rispettivamente, da; ilmattino.it; cremit.it

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