Crescita economica: la sfida per il governo giallorosso

Il vero banco di prova per questo governo sarà il tema della crescita economica.

Certo, quello che i 4 partiti della coalizione governativa erano tenuti a fare, perché scritto nell’accordo che ha dato vita al Conte 2 (scongiurare l’aumento dell’iva) è stato fatto. Ed era indispensabile per evitare pesanti risvolti sul debito pubblico e quindi il rischio recessione.
Ma la situazione in cui versa il nostro Paese richiede che accanto a interventi tampone (come è stato quello sull’Iva) vi siano interventi organici che facciano parte di una visione di lungo periodo (se realmente si vuole evitare che l’Italia imbocchi definitivamente la via del declino economico).
Bisogna prendere atto che in un quadro economico internazionale non molto favorevole al continente  europeo, paesi come la Germania, la Francia, la Spagna crescono ancora. L’Italia no. È questo il problema da affrontare.

Non è una novità che la nostra economia cresca poco anzi è una situazione che si trascina da vent’anni ed è il motivo per cui la crisi del 2008 noi l’abbiamo patita più di altri paesi. Tuttavia, dopo la lunga recessione che da noi si è protratta fino al 2013, nel triennio 2014-17 si è registrata una ripresa piuttosto consistente, che faceva ben sperare. Ma nei due anni successivi, quella ripresa  appena avviata ha subito una troppo prematura battuta di arresto.
A conclusione del biennio 2018-19 la situazione economica del Paese è decisamente peggiorata:  il prodotto interno lordo, che nel 2017 era risalito all’1,7 %, nel 2019 è sceso allo 0,2%; è stato bloccato il piano Industria 4.0 (da tutti riconosciuto come fondamentale per lo sviluppo economico); la produzione industriale è calata del 2,4%; l’industria manifatturiera ha perso su base annua il 2,7%. Per non parlare del debito pubblico che nel 2019 ha raggiunto il livello più elevato della storia della Repubblica.

Non è peccare di partigianeria affermare che, nell’anno e mezzo in cui sono stati al governo, i  due populismi nostrani hanno dato una pessima prova della loro capacità di gestire la situazione economia del Paese: tutto ciò che lo Stato poteva permettersi di investire(con grossi sacrifici per i contribuenti, beninteso) per migliorare l’andamento della nostra economica è stato investito  per realizzare due misure di tipo assistenzialistico, con un costo molto elevato e raggiungendo risultati molto modesti. Finora le persone che hanno fatto ricorso al reddito di cittadinanza e quelle che hanno fatto ricorso al pensionamento anticipato sono state molto meno del previsto e in più l’impatto di entrambe le misure sull’occupazione, presentato come elemento innovativo di grande rilievo, è stato in realtà irrilevante. Non è irrilevante invece l’impatto negativo delle due misure sui conti pubblici: il bilancio di previsione dell’inps ha stimato che nel 2020 esso sarà di 7,1 miliardi per il reddito di cittadinanza e di 5,2 miliardi per quota 100.

Quali sono le cause e cosa si deve fare per riportare il Paese sui binari di una possibile crescita è cosa abbastanza nota e lo ha riassunto assai bene l’economista Guido Tabellini in un articolo sul quotidiano Il Foglio del 7 gennaio scorso: “Per arrestare il declino economico e rilanciare la crescita, non servono politiche keynesiane di sostegno alla domanda, né è sufficiente affrontare l’emergenza delle molte crisi aziendali che si prospettano. Occorre affrontare i nodi sistemici” che “ostacolano” la crescita e che sono “atavici”: “La bassa spesa in ricerca e un sistema universitario e scolastico antiquato e inefficiente (favoriscono la specializzazione nei settori dove il capitale umano è meno importante); L’invecchiamento della popolazione, aggravato dall’emigrazione dei giovani più intraprendenti (riduce la capacità di innovazione); La tolleranza dell’evasione fiscale (agisce come un sussidio alle imprese piccole e a quelle che operano nell’economia sommersa); L’elevato debito pubblico e l’incertezza ad esso associata (tengono alto il costo del capitale, scoraggiano gli investimenti privati, ostacolano l’afflusso di capitale sia umano che finanziario dall’estero); Il cattivo funzionamento della pubblica amministrazione e la carenza di infrastrutture (sono un handicap più grave per i settori a più alto contenuto tecnologico e per i servizi di assistenza alle imprese, e anche questo spinge il sistema produttivo verso settori tradizionali e poco sofisticati); La contrattazione troppo centralizzata (i differenziali salariali tra Nord e Sud non riflettono le differenze di produttività. Il maggior costo del lavoro al Sud si traduce in disoccupazione e deindustrializzazione)”.

Affrontare questi ostacoli significa, in sintesi: “rimettere la finanza pubblica su un sentiero sostenibile, combattere con efficacia l’evasione fiscale, riformare profondamente la pubblica amministrazione e il sistema dell’istruzione, spendere di più in ricerca, decentrare la contrattazione salariale a livello aziendale e accettare che il salario sia legato alla produttività, affrontare le sfide demografiche con politiche fiscali e della famiglia che aumentino l’occupazione femminile e arrestino la fuga dei giovani verso l’estero”.

 “Nulla di tutto questo è facile da fare –conclude Tabellini – , per ragioni politiche e tecniche. Ma nel Paese c’è una forte domanda di cambiamento. Un governo che mostri di saper affrontare i nodi atavici della nostra economia, con una strategia coerente e una visione lungimirante, sarebbe premiato dall’opinione pubblica”.

Fa bene il professore Tabellini a sottolineare il fatto che affrontare seriamente il problema della crescita, oltre ad essere una impresa non facile, e quindi molto impegnativa, può risultare politicamente conveniente, in termini di consenso, per chi se ne fa carico.
È una considerazione importante, che tocca un aspetto centrale della politica (l’acquisizione del consenso) legandolo non al ricorso a facili promesse da campagna elettorale ma ad una assunzione di responsabilità rispetto al futuro del Paese.

Purtroppo, al tema della crescita, pur essendo di grande rilevanza sociale, i partiti che formano l’attuale compagine governativa non hanno finora prestato molta attenzione. Infatti anche la manovra 2020, varata da questo governo, al pari di quella varata dal Conte 1, non parla il linguaggio della crescita. A discolpa si può dire che non c’erano i tempi tecnici per predisporre un piano che guardasse al medio lungo periodo, perché c’era l’urgenza di trovare 23 miliardi per disinnescare l’aumento dell’iva (che altrimenti avrebbe ulteriormente depresso la nostra economia). Probabilmente è così.
Ma ora il governo, se vuole darsi una prospettiva, deve  invertire il senso di marcia. Il Paese ha bisogno di un piano che metta al primo posto la crescita, cui dedicare non solo le briciole previste dalla manovra da poco varata ma trovando altre e più consistenti risorse. Per ora ci sono solo timidi indizi che potrebbero preludere a un necessario cambiamento di rotta (l’annuncio fatto a inizio d’anno dal presidente del Consiglio Conte di essere pronto a rivedere reddito di cittadinanza e quota100. E la proposta del leader di Italia Viva  Renzi di sbloccare 120 miliardi già stanziati per le opere pubbliche).

Se il cambiamento dovesse realmente avvenire segnerebbe un salto di qualità non da poco, e aprirebbe una prospettiva politica inedita: in nome dell’interesse nazionale, un governo che oggi gode di scarsa considerazione, perché secondo la vulgata più diffusa è frutto della opacità dei giochi di palazzo, verrebbe ad assumere il compito di avviare un “vaste programme” che nessuno negli ultimi vent’anni è riuscito a realizzare.
 In palio c’è, come dice Tabellini, la possibilità di arrestare il declino economico del Paese e in premio il consenso degli italiani.
Le cose da fare sono difficili, certo, ma potrebbero far diventare forte un governo debole.

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