L’ARTE ANTICA CI PUÒ AIUTARE A CAPIRE LA REALTÀ ATTUALE
Contro la mistificazione della realtà operata dai tradizionalisti

Più volte abbiamo messo in evidenza l’invito di papa Francesco a liberarci dalla tentazione propria del tradizionalismo ovvero dall’idea che di fronte alla complessità dei problemi che la realtà ci pone si possa rispondere con una fuga nel passato, nella ricerca di una salvifica identità perduta.

È nostra convinzione che la pretesa dei tradizionalismi religiosi e politici di richiamarsi alle radici del passato sia frutto di una loro misinterpretazione (lettura deformata in chiave ideologica della realtà) e della ignoranza della storia (di “passati” negli ultimi due millenni ce ne sono stati tanti ed ognuno a modo suo “autentico”).

A sostegno di questa convinzione, si possono portare vari esempi ricavandoli (e la cosa non deve apparire strana) dall’analisi di alcune opere d’arte.

Perché usare l’arte?

Perché essa, come specchio e contemporaneamente promozione della cultura della società in cui nasce, ci consente di capire, attraverso la sua interpretazione, molti aspetti che caratterizzano il contesto in cui vivevano i suoi fruitori. 

In generale, le immagini scolpite o dipinte rappresentano in qualche modo un riflesso delle condizioni culturali/sociali in cui sono state prodotte e possono indicarci le tipologie di influenza ed i condizionamenti culturali che esse, a loro volta, hanno esercitato sulla formazione della mentalità dei fruitori.

Pensiamo pertanto sia possibile, attraverso la ricostruzione della genesi e dello sviluppo nel tempo di determinate immagini (e più in generale rappresentazioni artistiche) comprendere aspetti socioculturali importanti anche del nostro presente.

Per quanto riguarda in particolare il tradizionalismo religioso, esso ha sempre affermato la continuità della fede nei secoli, negando i veri e propri cambi di paradigma nella teologia e nelle manifestazioni devozionali dei credenti. I tradizionalisti, cioè, non possono accettare che l’unica legge universale che unifica ogni produzione umana compresa quella religiosa sia l’impermanenza, verrebbe meno il concetto di delega e di (ir)responsabilità del fedele, che è la base del loro potere, in quanto essi si ritengono detentori della Verità immutabile a cui, obbligatoriamente, ci si deve rivolgere per potersi “salvare”.

Ma un discorso analogo vale anche per il tradizionalismo culturale dei movimenti politici della destra sovranista, che si richiama al cattolicesimo (in particolare a quello di Ratzinger), giustifica le proprie scelte innanzitutto nel campo dei diritti civili (aborto, fine vita, sessualità, ecc.) e dell’opposizione all’Europa liberale e laica, appellandosi alla lettura della Bibbia condotta dal tradizionalismo religioso, dove il richiamo al passato – per poter confermare l’immobilismo e la ripetizione di pratiche obsolete – diventa la risposta ai problemi dell’oggi.

La persistenza del passato imposto alla vita dei contemporanei diventa per costoro garanzia di soluzione rispetto ai mutamenti della modernità.

Ma si pongono almeno due problemi.

Il primo problema riguarda il fatto che non esiste un unico “passato” a cui far riferimento, ma tanti” passati”, ognuno con le proprie implicazioni e conseguenze. “Tornare alle origini” non vuole dire nulla se non si specifica a quali delle diverse tipologie di cristianesimo che sono sorte e si sono presentate nella storia si fa affidamento. 

Il secondo problema consiste invece nello stabilire quali “persistenze” del passato sia necessario mantenere e quali “mutamenti” è doveroso favorire.

Per fare un esempio, nella realizzazione del “crocifisso”, le opere d’arte di cui disponiamo testimoniano non solo la continuità (persistenza) delle pratiche di fede – quale può essere la preghiera rivolta alla croce – ma anche la serie di cambiamenti (mutamenti) radicali – in termini di interpretazione teologica – che il crocifisso ha subito fino ai nostri giorni. Queste trasformazioni nella realizzazione dell’oggetto hanno generato una determinata predisposizione – sempre diversa a seconda del tipo di immagine del crocifisso – del credente nei confronti della stessa fede.

Richiamarsi invece ad un passato come se fosse unico, decontestualizzato e quindi astorico – come fanno i tradizionalisti –   è solo un atto di fede cieca, non di un esame razionale dei fatti. Questa operazione, tuttavia, serve a loro per non fare i conti con l’esistenza del cambio di paradigma, cioè col fatto che la figura di Gesù sulla croce ha avuto valenze diverse, perfino opposte, così come l’atteggiamento dei fedeli nei suoi confronti.

Tutto ciò, analizzando le rappresentazioni artistiche, emerge in tutta evidenza.

Nei due millenni trascorsi, semplificando molto, la croce è stata intesa come strumento di cui vergognarsi e da non riprodurre in immagine, poi, dopo secoli, come “trono” su cui era assiso il sovrano dei Cieli e della Terra, poi come la sede dolorosa del Dio incarnato necessaria per la redenzione dei peccati commessi, fino a diventare, nell’ultima versione del grande artista Congdon, l’emblema indistinto e non più esclusivamente “cristiano”, della sofferenza dell’umanità.

L’unica certa e indiscutibile “continuità” – negata o meglio minimizzata dalla Chiesa di Roma, ma ben identificata da altre Chiese cristiane – consiste nel permanere – fino ai nostri giorni- di una “religiosità popolare” sostanzialmente politeista, superstiziosa e facilmente manipolabile dal tradizionalismo cattolico e politico.

Il cosiddetto “oppio dei popoli” di Marx è perfettamente attuale per quanto riguarda questa espressione religiosa che, attraverso l’alternanza della consolazione (paradiso) e della paura (inferno o apocalisse ultima), rende passivi ed eterodiretti i suoi praticanti.

L’immagine in evidenza: particolare da una foto di Josh Applegate su Unsplash

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