Il Sinodo sull’Amazzonia /3

INIZIO DI UN CAMMINO CHE SPAVENTA LA CHIESA TRADIZIONALISTA

Da domenica 6 ottobre a sabato 26 ottobre si è svolto a Roma il Sinodo sull’Amazzonia, cioè l’incontro di vescovi (i cosiddetti padri sinodali, partecipanti ai lavori con diritto di voto, e che sono 184, di cui 113 appartengono alle diocesi in cui sono suddivise le regioni amazzoniche), assieme a 25 esperti, 55 tra uditori e uditrici e 17 rappresentanti di popoli ed etnie indigene. Il documento finale, ancora in lingua spagnola, è composto da cinque capitoli (più introduzione e conclusione) per un totale di 120 paragrafi. Alcuni di questi (pochissimi, solo cinque) trattano dei due temi più popolari tra l’opinione pubblica: quello degli uomini con famiglia stabile che svolgono il ruolo del sacerdote e quello dei nuovi incarichi alle donne delle comunità. Non affronteremo ora questi argomenti perché pensiamo che la frattura tra la Chiesa di Francesco e la Chiesa dei tradizionalisti sia a monte, riguardi non solo questi due temi, ma soprattutto investa un intero modo di “guardare” e quindi praticare il percorso di evangelizzazione. Questa scissione era già presente all’epoca del “Discorso sulla Fratellanza”, contestato dai tradizionalisti perché inteso come un cedimento di principi non negoziabili.

Secondo papa Francesco, il primo obiettivo del Sinodo era ed è quello di far conoscere il vero volto di Gesù a popoli e realtà spesso dimenticati, testimoniando che il Vangelo può essere vissuto pienamente nel rispetto delle culture locali. Questa è una operazione di estrema difficoltà perchè dovrebbe coniugare la salvaguardia di due elementi che sono tra loro sempre a rischio di collisione: la cultura primigenia di un popolo da una parte e, dall’altra, il messaggio dei Vangeli proposto da una struttura complessa come la Chiesa, con i suoi riti e le sue leggi. L’intervista a padre Bossi (il provinciale dei Comboniani brasiliani, missionari attivi soprattutto in Africa e nelle Americhe, con 330 case e 1800 circa religiosi) illustra e riassume, in maniera illuminante, lo sforzo compiuto dal Sinodo per analizzare la realtà socio-culturale dell’Amazzonia e l’attenzione posta a riconoscerne diversità e specificità. Tutto questo – l’analisi accurata, a 360 gradi, del territorio e dei suoi abitanti – serve ad elaborare una proposta del messaggio di Gesù tale da essere intanto capita e, poi, fatta propria dalle popolazioni locali. Leggetevi la Relazione del Sinodo e scoprirete che sono state mobilitate le metodologie più moderne dell’antropologia, dell’etnografia, dell’ecologia per cercare di progettare una strategia di intervento che innanzitutto evitasse gli errori commessi dalla prima “colonizzazione” cristiana e che poi consentisse una interiorizzazione di ciò che è essenziale della parola di Gesù (senz’altro non la messa in latino!).

A questa ricerca del Sinodo si contrappone la soluzione preconfezionata della Chiesa dei tradizionalisti. Per costoro basterebbe stendere sopra la popolazione indigena – come fosse una coperta buona per tutte le stagioni – la sequenza dei riti, delle regole, delle procedure, perfino il linguaggio della Chiesa europea: infatti la parola d’ordine dei tradizionalisti è “L’Amazzonia dalla faccia cattolica”, invece della “Chiesa dal volto amazzonico”. Questa modalità miope di pensare alla diffusione della fede nasce dal considerare il messaggio del Vangelo come dotato di una universalità (“cattolicità”) che non è tuttavia vista come un percorso da realizzare nel tempo della storia, ma che consiste in un dato di fatto definitivo, realizzatosi una volta per tutte con la Chiesa medievale, con la sua Tradizione, i suoi papa infallibile e le sue certezze dottrinarie che si fermano prima del Concilio Vaticano II. Per la Chiesa dei tradizionalisti la proposta del Vangelo diventa il letto di Procuste, con cui tagliare i piedi o tirare i colli di tutti coloro che non comprendono oppure non si adeguano. Essi presentano quindi un Vangelo di conquistatori, conquistatori che i tradizionalisti non si vergognano di emulare (come non si vergognano di usare “Lepanto” come parola d’ordine nei confronti dell’Islam).

Purtroppo anche su questo punto i tradizionalisti possono fare riferimento al pensiero di Benedetto XVI e alla sua idea di evangelizzazione (per correttezza, non l’unica versione del suo modo di intenderla). Scrive Benedetto XVI: “…Ma, che cosa ha significato l’accettazione della fede cristiana per i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi? Per essi ha significato conoscere ed accogliere Cristo, il Dio sconosciuto che i loro antenati, senza saperlo, cercavano nelle loro ricche tradizioni religiose. Cristo era il Salvatore a cui anelavano silenziosamente.….In effetti, l’annuncio di Gesù e del suo Vangelo non comportò, in nessun momento, un’alienazione delle culture precolombiane, né fu un’imposizione di una cultura straniera.” L’incapacità del Papa emerito, come dei tradizionalisti che fanno a lui riferimento, nel valutare la tragedia della colonizzazione religiosa del Sud America, comunque la sua inapplicabilità oggi, fa capire, meglio dei distinguo sul ”sacerdozio agli sposati” ecc, quanto grande sia oramai la distanza che li separa da papa Francesco e dal Sinodo. L’ignoranza storica che rivela il loro pensiero, che pure non nega (almeno in alcuni casi) imposizioni arbitrarie di sistemi culturali ed economici, associate a soprusi ed eccidi nei confronti degli indios, si accompagna ad una ignoranza teologica sul messaggio di Gesù, il quale mai ha pensato e voluto che la sua Buona Novella venisse preceduta/seguita dagli archibugi e dalle spade. In futuro spiegheremo come i tradizionalisti usino alcune frasi di Gesù (una per tutte “Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada” Matteo 10,34) per giustificare la contrapposizione col diverso fino allo scontro e alla violenza delle armi.

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