La parabola dei due populismi

Un anno fa Di Maio e Salvini erano insieme e saldamente al potere.
Alla guida (di fatto) del governo Conte 1 (al quale era stato dato il soprannome di “governo del cambiamento”) cercavano di dare corpo legislativo alle loro mirabolanti promesse elettorali, con le quali avevano guadagnato un mare di consensi. Ma nel dover fare i conti con la realtà del debito pubblico, della penuria di risorse disponibili, della diffidenza dei mercati, delle raccomandazioni della Commissione Europea, dello spread in salita, ecc., cominciavano anche le prime difficoltà.
Secondo una vecchia regola della politica, i populisti, quando vanno al governo, non potendo realizzare le tante promesse elettorali, perdono buona parte del consenso che avevano conquistato. E in genere inizia per loro una progressiva decadenza.

Il primo ad inciampare in questa regola è stato Di Maio (per la precisione, nel caso dei cinque stelle, non c’erano solo promesse mirabolanti, ma accanto alla propensione a realizzare misure assistenzialistiche c’erano di converso remore per tutto ciò che riguarda investimenti  industriali, infrastrutture, incentivi alle imprese. Insomma una proposta all’insegna della cosiddetta decrescita felice).

Quanto il populismo al governo dei cinquestelle sia stato apprezzato dagli elettori (che pure avevano dato loro molto credito) lo si è visto con le elezioni regionali sarde, tenutesi il 24 febbraio 2019: il M5s ha ottenuto il 9,74%. Solo dieci mesi prima, sempre in Sardegna, in occasione delle consultazioni politiche del 2018, i pentastellati  avevano raggiunto il 32,68%. Una debacle del genere non si era mai vista. Era il segnale che il Movimento e il suo leader avevano imboccato una parabola discendente difficilmente arrestabile. La conferma di questo andamento, a livello nazionale, si è avuto con le elezioni europee del maggio 2019 dove, con il 17,06% il M5s ha quasi dimezzato i voti ottenuti alle politiche dell’anno prima.
La parabola discendente si è poi conclusa pochi giorni fa con le dimissioni di Di Maio da capo politico del Movimento, che hanno di poco anticipato la sconfitta alle elezioni regionali in Emilia-Romagna (in questa regione il M5s è passato dal 27% delle politiche 2018 al 12,89% delle europee 2019 e al 4,74% delle regionali 2020) e in Calabria (43,4% nelle politiche,  26,69% nelle europee, 6,27% nelle regionali, non riuscendo ad ottenere neppure un seggio).

Ora i cinque stelle vivono una fase di ripensamento e di riorganizzazione. Vedremo.
Anche se dovessero superare l’attuale crisi, il M5s e Di Maio non potranno più essere come prima.

Desta stupore l’insistenza con la quale Zingaretti e buona parte del Pd continuano a parlare di alleanza strategica con il M5s. L’inconsistenza di questa idea, già di per se bislacca, è stata resa plasticamente evidente prima dai risultati delle regionali umbre (dove Pd  e M5s presentandosi insieme hanno favorito il trionfo del centrodestra) ed ora dai risultati delle elezioni emiliane (dove il centrosinistra ha vinto grazie al buongoverno del governatore uscente Bonaccini che è riuscito a mantenere il suo elettorato e, con l’aiuto delle Sardine, ha richiamato al voto una parte di ceto medio che negli ultimi anni si era rifugiato nell’astensione). Zingaretti  e Franceschini intendono ripetere il fallimentare esperimento umbro anche nelle prossime elezioni regionali di primavera?  Per andare dove?  Per fortuna le elezioni emiliane un po’ di chiarezza l’hanno fatta. Dal loro andamento si capisce quali sono oggi le condizioni perché la sinistra possa tornare a vincere: buongoverno (= riforme per la crescita) e apertura al centro.

Tornando ai due populismi. Per la Lega le cose sono andate diversamente. I consensi aumentavano nella stessa misura in cui diminuivano per il M5s. Dopo quasi un anno di convivenza nel governo Conte 1, alle elezioni europee del 2019 il M5s ha dimezzato i voti presi alle politiche del 2018, passando da 10.732.066 preferenze a  4.569.089 (ovvero dal 32,68% al 17,06%); la Lega invece ha quasi raddoppiato i voti presi alle politiche 2018, passando da 5.698.687 preferenze a 9.175.208 (ovvero dal 17,35% al 34,26%). La Lega è così diventato il primo partito italiano. Come è stato possibile che, governando assieme, Di Maio e Salvini ottenessero risultati così differenti?

Non che la vecchia regola si sia rivelata fallace. È che Salvini ha saputo procrastinarne gli effetti, spostando in avanti l’inizio della sua parabola discendente.
Raccontare le astuzie dell’uomo politico Salvini non è impresa da poco. E noi non ci proviamo nemmeno. Però bisogna pur dare una spiegazione di come sia riuscito a rimanere alla guida di un governo fallimentare senza subire vistosi contraccolpi (come invece è capitato a Di Maio).

Per prima cosa bisogna considerare la differenza che c’è tra Lega e M5s sul piano della organizzazione e della storia politica. Il M5s è per sua natura un non-partito, mentre la Lega di Salvini, per quanto si sia presentata come un soggetto nuovo, affonda le sue radici nella Lega padana: un movimento ben strutturato, con una ampia base popolare e di tipo identitario.
Questa diversità ha consentito a Salvini, fra le altre cose, di capire che tra il desiderio di cambiare il funzionamento della macchina statale e il bisogno di sicurezza la gente è più sensibile a quest’ultimo.
Ricordiamoci che per Salvini la comunicazione prevale su tutto il resto (come fa notare Salvatore Merlo nel suo ritratto del Capitano compulsivo, su Il Foglio dell’altro ieri). Una volta al governo, da vicepremier e ministro dell’interno, Salvini si è concentrato ossessivamente su ciò che lui ha chiamato difesa dei confini, ha usato la sua potente macchina propagandistica (la cosiddetta Bestia) per ingigantire la rilevanza del tema fino a far percepire ad una grossa parte della pubblica opinione che l’Italia era invasa dagli stranieri e lui era il salvatore della patria. Contemporaneamente ha lasciato a Di Maio il vessillo della lotta contro la vecchia politica: cosa che al M5s non poteva riuscire bene, perché al di là dello slogan “governo del cambiamento” non era stato programmato e costruito nulla che prefigurasse una vera alternativa.
Un’altra caratteristica del salvinismo, figlia del radicamento della Lega negli strati popolari, è il legame che Salvini ha saputo costruire con quella fetta, piuttosto ampia, di credenti  rimasta ancorata ad un cattolicesimo pre Vaticano II, che si riconosce più nel tradizionalista Ratzinger che nell’innovatore (sia pur moderato) Bergoglio,  che ad una Chiesa dialogante con le altre fedi preferisce una Chiesa che, abbarbicata ai propri indiscutibili dogmi, guarda agli altri con diffidenza.
Bisogna riconoscere che Salvini ha dimostrato di essere un politico molto più avveduto e scaltro di Di Maio. Salvini non ha mai interrotto in modo definitivo i rapporti con i partiti della coalizione di centrodestra con la quale si era presentato alle elezioni politiche. Faceva parte del governo gialloverde ma contemporaneamente si presentava, nelle varie tornate elettorali  amministrative, con chi faceva l’opposizione a quel governo (una opposizione che era soprattutto rivolta a criticare l’operato della componente grillina e di Di Maio in particolare).
Tutta la vicenda del contrasto all’immigrazione clandestina, puntellata di iniziative clamorose (spesso al limite della legalità) e utilizzata come formidabile strumento per l’acquisizione del consenso, è stata gestita in modo personalistico senza veramente coinvolgere il resto della compagine governativa (ancora oggi Conte dice che del sequestro della nave Gregoretti lui non era stato messo al corrente) affinché fosse chiaro che pur facendo parte del governo lui era anche altro, ed era lui e solo lui il salvatore della patria.

Ma tutto questo non avrebbe potuto preservare all’infinito Salvini dalla oggettiva corresponsabilità nella gestione della cosa pubblica che, comunque, lui condivideva con Conte e Di Maio. Dopo un anno di governo diveniva sempre più evidente che il “governo del cambiamento” non aveva cambiato gran che. I principali indicatori economici dicevano che le cose andavano male e facevano prevedere che il biennio 2018-19 sarebbe finito come poi in effetti è finito: con il prodotto interno lordo (che nel 2017 era risalito all’1,7 %) sceso allo 0,2%; il piano Industria 4.0, cioè gli investimenti ad alto contenuto tecnologico, bloccati; la produzione industriale calata del 2,4%; l’industria manifatturiera in perdita del 2,7% su base annua; il debito pubblico giunto al livello più elevato nella storia della Repubblica. Pur in presenza di una congiuntura negativa per tutta l’eurozona, i nostri principali competitor (Germania, Francia e Spagna) crescevano. Noi no.
Per quanto tempo si poteva continuare a dire agli italiani che se le cose andavano male la colpa era di quelli di prima? Stando al governo con Di Maio e i cinquestelle Salvini era riuscito a far crescere elettoralmente la Lega, ma condividere la responsabilità del fallimento dell’azione di governo avrebbe comportato costi politici che lui non era disposto a pagare. Meglio non condividerla quella responsabilità, meglio chiamarsi fuori, meglio sfiduciare il proprio governo, possibilmente andare subito al voto (per capitalizzare i consensi che aveva guadagnato in un anno di coabitazione con Di Maio e Conte) e  chiedere, perché no, i pieni poteri: è stata la trovata di Salvini in un giorno di ferie d’agosto.
Alcuni hanno detto che Salvini non è poi così pericoloso per la democrazia come lo si dipinge, che quando ha invocato i pieni poteri in fondo ha solo usato una espressione infelice, un po’ esagerata, quasi una metafora per dire che in questo paese c’è bisogno di governabilità.
Siamo onesti, veramente possiamo credere alla favola che Salvini ha spesso raccontato secondo la quale in quel governo aveva le mani legate, che non aveva abbastanza potere per fare cose utili per il bene degli italiani?

La trovata del Papeete, il  sogno di una notte di mezza estate, in realtà ha aperto la strada a ciò che avrebbe rappresentato l’inizio della parabola discendente del leader leghista: la costituzione del Conte 2, di un governo senza la Lega.
Il primo ad essersene reso conto è stato proprio Salvini. Pubblicamente ha continuato ad ostentare sicurezza. Ma intanto si è dato da fare per  provare a limitare il danno, frenare l’irrefrenabile (cioè l’avvio della decadenza). Ha fatto di tutto, sfiorando persino il ridicolo, per convincere Di Maio a non far partire il Conte 2: ha promesso ministeri, premierato, e quant’altro. Ma non è riuscito nel suo intento. Beppe grillo, il vero capo politico dei cinque stelle, è intervenuto per far capire a Di Maio quanto si fosse rivelata esiziale l’alleanza con Salvini e come fosse necessario cambiare completamente alleato per garantire la propria sopravvivenza politica.
Fino al mese di ottobre 2019 la Lega ha continuato a crescere, ma una volta assestatosi il governo Conte 2 la popolarità di Salvini non è più aumentata.

Fallito il tentativo di riportare il paese alle urne, il capo della Lega si è buttato a capofitto nella campagna per le elezioni amministrative in Calabria ed in Emilia-Romagna. Soprattutto in quest’ultima, storica roccaforte della sinistra, Salvini ha puntato a trasformare una semplice elezione regionale in un test di valore nazionale. Nell’eventualità di una sconfitta della sinistra (cosa che lui dava per scontato) si sarebbero dovute svolgere, a suo dire, le elezioni politiche anticipate. Non è successo nulla di tutto questo.
Le elezioni regionali sappiamo come sono andate. I grandi giornali (che da un po’ di anni a questa parte hanno smesso di fare analisi limitandosi a fare i supporter di questo o di quello) prevedevano un leggero vantaggio per Salvini oppure un leggero vantaggio per Bonaccini. Sbagliando in entrambi i casi, perché 8 punti percentuali non sono un fatto “leggero” (sul piano nazionale corrisponderebbero ad alcuni milioni di voti. Una volta, quando i politici e i giornalisti preparati abbondavano, spostare l’elettorato di soli 2 punti percentuali a proprio vantaggio era considerata una netta vittoria; e l’opposto una netta sconfitta).  

Un segno del fatto che Salvini si sia reso conto di aver imboccato una china per lui preoccupante è nella precipitosa dichiarazione che si è affrettato a rilasciare alla stampa quando erano appena apparsi i primi exit poll delle elezioni emiliane. Salvini si è affrettato a ringraziare gli elettori dichiarandosi soddisfatto, a prescindere da quale sarebbe stato il risultato finale, per aver comunque ottenuto un risultato importante: “aver reso contendibile il governo dell’Emilia –Romagna”, una regione governata da 70 anni dalla sinistra. In pratica si è affrettato a fare la seguente operazione: spostare l’attenzione da una sua sconfitta (che sappiamo si rivelerà clamorosa) a un suo presunto risultato positivo. Come dicevamo, per Salvini la comunicazione prevale su tutto.

In realtà, a parte il fatto che la coalizione di centrodestra  non è riuscita a contendere l’Emilia-Romagna al centrosinistra, la Lega come singolo partito ha preso meno voti di quanti ne aveva presi nelle europee dello scorso anno. Incomincia ad avere i primi effetti anche un’altra importante vecchia regola della politica, enunciata più volte da un uomo di grande esperienza nel campo come Giulio Andreotti: “il potere logora chi non ce l’ha”.

La coalizione al governo dovrebbe conoscerla, questa regola, e fare di tutto perché l’esecutivo tenga, facendo cose importanti e utili per il Paese.

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