La formazione del governo Conte II: il metodo

Il governo Conte 2 nasce, esattamente come il governo Conte 1, da un accordo a tavolino tra partiti diversi e tra loro concorrenti, nel senso che non avevano siglato una alleanza prima delle elezioni e non avevano espresso obiettivi e programmi comuni. Da questo punto di vista non c’è nulla di nuovo: il modo in cui si è formata l’alleanza tra M5s e Pd è lo steso del modo in cui si era formata l’alleanza tra M5s e Lega. Parlare come ha fatto Salvini di non rispetto della volontà degli elettori e di non rispetto delle regole democratiche, solo nel caso del Conte 2, non è onesto. E in più non è corretto: la procedura seguita nel 2019, come quella seguita nel 2018, rientra nelle regole della nostra democrazia parlamentare.

Può essere invece utile considerare altri aspetti relativi al modo in cui è nato il nuovo governo, per cercare di capire cosa ci si può aspettare da esso, cosa ne potrà derivare per il bene del nostro Paese.

Il Conte 2 nasce dopo 14 mesi di governo Lega-M5s, il cui operato non può che essere giudicato dannoso per il paese: la situazione economica è peggiorata, il debito pubblico è aumentato, la pressione fiscale è aumentata, la questione migratoria è stata molto agitata ma non affrontata, il paese è diventato meno credibile e più isolato a livello internazionale, il 2019 non è stato, come boriosamente promesso, un anno bellissimo. La crisi del governo Conte 1 era inevitabile.
Ma cosa ne ha determinato l’accelerazione?
L’atto politico che ha avviato la fine del primo governo Conte, come tutti sanno, è stato il cosiddetto autogol di Salvini: poco prima di ferragosto, da una spiaggia affollata dove era in vacanza, il leader della Lega, lamentando il fatto che la sua volontà politica era troppo ostacolata dai suoi alleati, ha annunciato di voler sfiduciare il governo del quale faceva parte (e sul quale esercitava in realtà un forte controllo). Ed ha anche detto che si sarebbe rivolto al popolo per chiedere i pieni poteri. Un colpo di sole? Probabilmente no. Certo un azzardo, da parte di un populista che ha sovrastimato il proprio peso politico.

L’atto politico decisivo va invece ascritto a merito dell’ex premier Renzi.
Forse pochi avevano dato credito a Renzi quando 14 mesi prima, all’indomani della sua sconfitta elettorale, mostrava di non essere particolarmente afflitto e con un po’ di cinismo affermava “tanto questi vanno a sbattere e presto torneremo noi”. E appena ha intravisto una possibilità per liberare il paese dalla follia gialloverde, è prontamente intervenuto per dichiarare e rendere possibile ciò che prima era considerato impossibile: una alleanza tra il Pd e Il M5s.
Oggi il Pd di Zingaretti fa qualcosa che non era nel suo programma. Zingaretti aveva sempre dichiarato e con convinzione che non avrebbe fatto alcun accordo di governo con il M5s ma, come sappiamo, nel giro di qualche giorno, se non di qualche ora, ha cambiato radicalmente opinione.
E Grillo, che ha sempre considerato il Pd come il principale ostacolo al rinnovamento della politica e alla modernizzazione del paese, anche lui nel giro di qualche giorno, se non di qualche ora, ha cambiato radicalmente opinione, tanto da invitare pubblicamente il giovanotto da lui posto alla guida del Movimento a mettere da parte le ambizioni personali e siglare l’accordo col Pd, in virtù dell’importanza storica della situazione che si è determinata.

Molti commentatori, hanno messo l’accento sul fatto che questa alleanza inattesa e in qualche modo innaturale è, specie per il Pd, piena di rischi. Preoccupazioni giuste, ma non sufficienti per considerare sbagliata l’operazione  che è stata compiuta (dato che i due partiti avevano sempre ufficialmente detto che non si sarebbero mai messi insieme) non cogliendone per intero il significato.

Oggi questa alleanza assume un significato che 14 mesi prima non avrebbe avuto. Quattordici mesi prima una alleanza tra Pd e M5s avrebbe segnato la resa della sinistra socialdemocratica e liberale ad un populismo rampante (con venature di sinistra ma dichiaratamente e programmaticamente illiberale). Nella situazione attuale l’accordo Pd – M5s, accanto alla funzione tattica di togliere dalla scena politica che conta uno dei due populismi insediatisi al governo del paese (quello dei due che si è mostrato più aggressivo e pericoloso) assume un significato totalmente diverso: un tradizionale partito socialdemocratico e liberale si offre come risorsa per superare i limiti ormai manifesti del populismo formato 5 stelle. Il Pd ha mostrato nei fatti, non solo a parole, di essere un solido baluardo contro i pericoli che può correre la nostra democrazia.

Quella che si è aperta potrà essere una fase politica totalmente nuova se verrà vissuta dai protagonisti come una sorta di laboratorio per la ricerca e la sperimentazione di possibili soluzioni (tutte da verificare naturalmente) per i tanti problemi, sul piano economico come su quello politico e sociale, che da molto tempo ricevono solo risposte parziali, insufficienti, e perciò creano, anche quando sono nutrite di buone intenzioni, insoddisfazione, malessere e alla fine sfiducia nei confronti della politica e del sistema democratico nel suo complesso.

Ma è pur vero che anche questa nostra manifestazione di fiducia può essere considerata un azzardo. Perché i rischi che una vera inversione di tendenza rispetto al Conte 1 non si verifichi ci sono e sono insiti proprio nel modo in cui si è giunti alla formazione del nuovo governo che, sul piano del metodo, condivide tutti i limiti del governo precedente. Perché, come dicevamo all’inizio, le forze politiche che lo compongono non hanno un vero programma comune, frutto di un ampio e approfondito confronto sui problemi del paese. Una cultura politica comune non si può inventare con un accordo, può essere solo gradualmente costruita col tempo (lavorare nello spirito del laboratorio può essere un metodo per favorire tale costruzione).
Né siamo in presenza di un premier portatore di un progetto per l’Italia, di una visione che potrebbe fungere da elemento catalizzatore di partiti diversi ma ugualmente interessati alla realizzazione del bene comune. C’è invece, all’origine, l’individuazione di uno stato di necessità ( impedire l’avvento di un governo “veramente sovranista” in politica e, in economia, scongiurare l’aumento dell’IVA) e l’impegno di alcune forze politiche di collaborare per individuare risposte positive. Può anche succedere (speriamo) che tutto vada per il meglio.

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