Il Pd e il M5s

Può sembrare strano occuparsi dei rapporti tra Pd e M5s proprio mentre quest’ultimo è sulla via dell’estinzione. Ma non è strano, perché la difficoltà che incontra il principale partito della sinistra nel formulare una proposta politica per il governo del Paese è diretta discendente del rapporto di alleanza, per molti versi incomprensibile, che si è instaurato tra i due partiti.

Ma andiamo con ordine.
Da un paio d’anni a questa parte, la strategia del Pd è impostata su una stretta alleanza con il M5s.
Nelle elezioni  politiche del 2018, il partito di Grillo era stato il principale avversario del Pd, al quale ha sottratto un’ampia quota di consensi, determinandone così una pesante sconfitta.
Tuttavia, non è un mistero che il M5s, pur presentando tratti decisamente lontani dal profilo politico del Pd (ad esempio l’ostentato antieuropeismo, l’antiparlamentarismo,  l’uso violento dei social,  il disprezzo del sapere e la conseguente e abbondante dose di qualunquismo) godeva di qualche simpatia presso una parte di dirigenti, militanti ed elettori democratici. Questa parte vedeva con simpatia altri tratti, altri elementi caratteristici, anch’essi presenti nella babele ideologica del grillismo (ad esempio lo statalismo, l’assistenzialismo, l’anticapitalismo, il giustizialismo). Nel 2018 si trattava ancora  di una componente minoritaria del Pd (basti pensare che ancora nel 2017 Renzi era stato rieletto segretario del Pd con circa il 70% di preferenze). Una minoranza, quindi. Ma forte e agguerrita. Ad esempio, era stata molto attiva e decisiva nel determinare la sconfitta nel referendum istituzionale del 2016 voluto da Renzi. Una minoranza che ha vissuto la sconfitta elettorale del 2018 come l’occasione per una resa dei conti verso una impostazione politica giudicata troppo liberale e lontana dalle proprie radici.

Sta di fatto che, all’indomani della sconfitta elettorale, nel Pd faceva sempre più proseliti l’idea che un prestigioso dirigente del partito come Gianni Cuperlo sintetizzava in un suo libro in questi termini: “nei vent’anni passati siamo usciti troppe volte con l’abito sbagliato”. Fuor di metafora, l’idea era ed è questa: il Pd ha perso una parte consistente del proprio elettorato perché non si è fatto interprete del disagio patito dalla classe operaia e dai ceti medi più colpiti dalla grave crisi economica iniziata nel 2008 ( e non ancora superata). I grillini avrebbero  fatto ciò che non aveva saputo fare il Pd (ad esempio:  il reddito di cittadinanza, presente nel programma dei grillini, veniva considerato una misura migliore del reddito di inclusione voluto da Renzi) perciò con loro bisognava (e bisogna) dialogare ed allearsi.
Troppi dati smentiscono questo tipo d analisi. Ma non ci soffermeremo su questo. Ci basta  rilevare che stava maturando un capovolgimento di prospettiva politica.

Pertanto deve essere stato abbastanza facile per l’ex leader del Pd Matteo Renzi, durante la famosa estate del 2019, convincere il neo segretario Zingaretti (espressione della nuova fase) a compiere quella che ha chiamato la mossa del cavallo, ovvero stringere una alleanza con il vecchio nemico giurato M5s per scongiurare i pieni  poteri invocati da Salvini (tanto è vero che dopo un po’ quella alleanza, che nelle intenzioni di Renzi doveva risultare puramente tattica, si è trasformata, nella visione di Zingaretti e del nuovo gruppo dirigente del Pd, in una alleanza strategica).

E deve essere stato altrettanto facile, nella strategia propugnata dal gruppo Zingaretti, Bettini, Orlando, Franceschini  et alii, arrivare da lì a poco alla stupefacente dichiarazione secondo la quale il presidente del consiglio grillino Giuseppe Conte, alla sua seconda esperienza di governo, rappresentava “il punto di riferimento fortissimo di tuti i riformisti”. Stupefacente e con tutta evidenza sbagliata, perché Conte nel giro di un anno era passato dalla guida di un governo marcatamente di destra alla guida di un governo che si voleva caratterizzare come marcatamente di sinistra. Era di fatto paladino non del nuovo riformismo ma del vecchio italico trasformismo.

L’abbraccio strategico col M5s non è servito a dare nuova linfa vitale al Pd. Né sul piano della elaborazione di una nuova proposta politica per il governo del Paese, né sul piano dell’acquisizione del consenso (il Pd è rimasto inchiodato al 19-20%, più o meno dove lo aveva portato la sconfitta del 2018). E questo per la semplice ragione che i grillini non erano portatori di nulla. Dietro la loro opposizione al “sistema dei partiti” non vi era l’elaborazione di una visione alternativa. Dietro parole d’ordine come la “democrazia diretta” o la “decrescita felice” non c’era la pur minima elaborazione di un qualcosa che somigliasse a un programma.

E proprio in virtù del vuoto di proposta politica, già all’indomani del trionfo elettorale, era iniziato per il M5s un inarrestabile declino. Viene da chiedersi: come ha fatto il Pd a non rendersi conto di tutto ciò, a non vedere neppure che il M5s dal 2018 in poi non ha più vinto nulla o quasi, collezionando una sconfitta dietro l’altra.

Ma l’abbraccio strategico col M5s alcuni cambiamenti nella fisionomia politica del Pd li ha comunque prodotti.  Intanto ha reso più forte la posizione di chi voleva tagliare definitivamente i ponti con la stagione riformista del governo Renzi,  bollata come neoliberista, e di conseguenza ha favorito la ripresa di posizioni da novello Pds. Insomma, un travaso di giacobinismo che ha fatto riemergere la tendenza a portare avanti  battaglie identitarie trascurando la via tipica dei riformisti, ovvero giungere a risultati accettabili attraveso il confronto, la mediazione, il compromesso. Ne è un esempio la recente vicenda del Ddl Zan sulla necessità, da tutti giustamente condivisa, di punire severamene chi offende, discrimina o compie atti di violenza nei confronti di omosessuali o transessuali.

Il testo del Decreto (approvato per ora solo alla Camera) è stato oggetto di critiche da parte di vari gruppi parlamentari, in primo luogo Lega, FdI e Fi. Perplessità sono state espresse anche dal Vaticano. Alcuni, tra cui il leader di Italia Viva e lo stesso Vaticano, hanno proposto di apportare delle modifiche relative ai punti controversi, lasciando immutato però il nodo centrale del Decreto, ovvero le dure pene contro l’omofobia. La maggioranza che ha approvato il Ddl Zan alla Camera ha numeri molto risicati in Senato e c’è il rischio concreto che la legge non passi. Il confronto e la mediazione sulle modifiche proposte avrebbe dato maggiori garanzie per l’approvazione. Certo perdendo qualche pezzo rispetto alla stesura originale, ma conservandone il fulcro, giusto, necessario e da tutti condiviso.
 Buttando alle ortiche la tradizione del riformismo italiano (specialmente per quanto riguarda i temi etici), il M5s e con esso il nuovo Pd lettiano sono stati irremovibili: o la legge passa esattamente come la vogliono loro oppure non se ne fa nulla.

Frutto  altrettanto grave, forse ancor di più, di questo imbarbarimento è la posizione ambigua che il Pd è andato assumendo nei confronti del governo Draghi.
Come è noto,  il M5s e il Pd hanno fatto di tutto per evitare la caduta del governo Conte2. Quando ciò non è più stato possibile il M5s si è diviso tra chi ha considerato il nuovo governo presieduto da Draghi come un governo nemico e chi si è limitato a fare buon viso a cattivo gioco, accettando di farne parte. Il Pd, pur avendo al suo interno molti orfani del contismo, ha ufficialmente appoggiato senza riserve il programma del nuovo esecutivo. E tuttavia, per non urtare la suscettibilità degli alleati, ha sistematicamente evitato di intestarsi l’agenda politica del nuovo governo (cosa che invece ha furbescamente fatto Salvini, per cercare di prendersi il merito dei tanti successi che il Paese sta registrando).

Ha ragione Claudio Cerasa quando scrive (sul Foglio del 1 luglio scorso) :

La difficoltà che ha il Pd a fare quello che sarebbe naturale fare per un partito pienamente europeista, come è quello guidato da Enrico Letta, denota un problema che appare molto più grande e che nasce da un particolare investimento emotivo fatto, almeno finora,  dalla leadership democratica, che ha trasformato un’esperienza transitoria, passeggera, d’urgenza, come era quella del governo Conte, in una esperienza formativa, utile a fotografare non uno stato di necessità ma uno stato di identità. Il centrosinistra di oggi, di fronte alla stagione di Draghi, sembra essere interessato a ricercare più le ragioni che permettono di dire ‘epperò noi siamo diversi’ che a trasformare in successi del Pd i successi del governo (anche se, come dovrebbe essere evidente, chiedere più Europa, più concorrenza, più efficienza, più produttività, più garantismo e cercare di combattere le diseguaglianze investendo sulla creazione di ricchezza e non solo sulla redistribuzione significa infilare un dito nell’occhio a tutti i partiti populisti). Il Pd lo fa non perché non veda quanto l’agenda Draghi sia simile all’agenda che dovrebbe avere il Pd… ma lo fa perché sa che i successi del governo rappresentano spesso degli insuccessi intollerabili per i propri alleati. E sa che intestarsi quei successi creerebbe dei problemi ulteriori nel rapporto con i claudicanti alleati”.

L’ultimo esempio, in ordine di tempo,  di questa contraddizione che attraversa in ogni suo aspetto il rapporto tra il Pd e l’esecutivo Draghi come conseguenza del rapporto tra il Pd e il M5s riguarda il tema della riforma della giustizia, avviata dalla ministra Cartabia.

La soluzione data dalla neoministra alla questione prescrizione modifica la precedente riforma del ministro grillino Bonafede ridimensionando di molto il suo taglio giustizialista e rendendo la norma  più in linea con la nostra Costituzione che ha, invece, un taglio nettamente garantista: viene fissato un termine per la chiusura di un processo (3 anni in appello e 18 mesi in Cassazione) pena il suo azzeramento. Conte si è affrettato a dire: “Non canterei vittoria. Non sono sorridente … Se un processo svanisce per nulla, per una durata così breve non può essere una vittoria per lo Stato di diritto”. E dichiara guerra al governo. Come se aspettare molti anni per avere una sentenza corrispondesse invece ad una vittoria dello Stato di diritto.

 Letta, da parte sua, dice di condividere l’impianto della riforma Cartabia (e ci mancherebbe) ma precisa di avere “un rapporto solido e positivo” con Conte e anche se le loro idee “sono diverse, per esempio sulla giustizia”,  è convinto di poter fare “molta strada insieme”. Giustamente Francesco Cundari  fa notare che quando si parla di giustizia e di durata dei processi “parliamo di fondamentali principi costituzionali, non di dettagli. E i principi sono tali proprio perché vengono prima di ogni altra considerazione. Perché s’incontrano, per l’appunto, al principio del cammino: se si trovano a metà strada, non sono più principi. Ma mezzi”.

Insomma, ha pienamente ragione chi sostiene (come Mario Lavia su Linkiesta del 3 Luglio) che il Pd per andare dietro i 5 stelle si ritrova senza una proposta politica per il Paese.
È naturale che ciò avvenga. Come potrebbe essere diversamente se si considera “imprescindibile” una alleanza con l’ex premier Giuseppe Conte del quale, proprio in questi giorni, il garante del M5s, Beppe Grillo, ha detto che non può essere lui a risolvere i problemi del Movimento e tanto meno (aggiungiamo noi) ad affrontare i problemi del governo del Paese, perché non ha “né visione politica, né capacità manageriali” e gli manca anche (sono sempre parole di Grillo) “esperienza di organizzazioni e capacità di innovazione”.

Conclusioni:

il movimento antisistema italiano, denominato 5 stelle, come è avvenuto e sta avvenendo per analoghi movimenti di altri Paesi, è allo sbando.
Il Pd dovrebbe avere l’umiltà (che spesso coincide con l’intelligenza) di ammettere di essersi sbagliato nel ritenere i grillini una costola della sinistra invece che dei semplici impostori che su oggettive difficoltà dei partiti tradizionali hanno innestato una pura e semplice  operazione di potere. Una operazione che è andata a gonfie vele finché è bastato, per raccogliere consensi, gettare fango su tutto e su tutti. Una operazione che alla lunga non sono stati in grado di gestire e perciò si sono messi a litigare tra di loro, perché chi è legato solo da vincoli di potere prima o poi litiga.

Ci sono altre ragioni per le quali Grillo e Conte se ne sono dette di tutti i colori? Ci sono altre ragioni per le quali Di Maio e Fico stanno facendo di tutto affinché i due smettano di litigare? Qual è il “progetto  da salvare” di cui parlano i dioscuri del M5s? È il progetto di sostituire la democrazia rappresentativa con la democrazia diretta? È il progetto di bloccare la crescita e avviare il Paese verso una decrescita improbabilmente felice?
L’elenco delle corbellerie assurte a progetto di rinnovamento politico potrebbe continuare a lungo.  il futuro della sinistra non può essere con Conte e/o con Grillo.

L’immagine in evidenza è tratta da lacnews24.it
Le altre immagini sono tratte, nell’ordine, da: linkiesta.it; corriere.it; corriere.it; lanotiziagiornale.it; fanpage.ir; freenewsoline.it; affaritaliani.it; quotidiano.net

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