REFERENDUM COSTITUZIONALE 2020
I veri riformisti /4

Come era prevedibile, il fronte dei riformisti che si è battuto per arginare l’attacco alla democrazia rappresentativa ha perso. La proposta populista (ma condivisa anche da partiti di tradizione democratica come il PD) di tagliare, sic et simpliciter, il numero dei parlamentari ha ottenuto quasi il 70% dei consensi.

Certo, il fatto che quasi un terzo dei votanti abbia espresso parere negativo su quella proposta non è cosa da poco (le previsioni erano più pessimistiche). E non è cosa da poco quanto rilevato da alcuni istituti di ricerca, ovvero il fatto che il NO, oltre ad essere prevalente  tra gli studenti (52%), raggiunga una quota comunque elevata  tra gli elettori dem (circa il 40%). Questi dati lasciano la porta aperta alla speranza che prima o poi si potrà fare una riforma vera.

Ora il PD, che ha considerato il taglio dei parlamentari un primo passo verso una riforma più complessiva del Parlamento, dovrà impegnarsi insieme agli alleati di governo, in primis il M5s, ad apportare i famosi correttivi (nuova legge elettorale e revisione dei regolamenti parlamentari) pena la tenuta, come loro stessi dicono, della democrazia rappresentativa.
Non siamo particolarmente ottimisti.

Il rafforzamento della democrazia rappresentativa non è certo ciò a cui pensa Di Maio quando parla della necessità di “aprire una nuova stagione di riforme”. Intestandosi tutto il merito della vittoria del SI, ha commentato l’esito del referendum costituzionale con queste parole: “Quello raggiunto oggi è un risultato storico.Torniamo ad avere un Parlamento normale, con 345 poltrone e privilegi in meno. È la politica che dà un segnale ai cittadini. Senza il Movimento 5 Stelle tutto questo non sarebbe mai successo”. E poi ha aggiunto: “Ora abbassiamo gli stipendi dei parlamentari…”.
Ecco, è proprio questa aggiunta che desta ulteriore preoccupazione, perché rimette in primo piano un tema che era stato sempre considerato secondario se non del tutto ignorato da chi aveva dato indicazione di votare SI rivendicando posizioni politiche riformiste: i costi della politica. Di Maio, da buon populista, rimette al centro della scena il tema più gettonato da tutti i nemici della democrazia liberale: la politica, il parlamento, la democrazia come un costo (spesso come uno spreco) e quindi da tagliare. Un armamentario di argomenti che rivela il vero intento che ha animato i pentastellati nel formulare la loro proposta referendaria: rendere più debole il Parlamento. In linea con quanto, già nel 2013, diceva Beppe Grillo: “Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno”. E  Casaleggio: “Presto il Parlamento perderà le sue funzioni”.

Insomma, il Parlamento come luogo in cui si confrontano le idee, e le leggi nascono dalla faticosa ricerca della mediazione, ai Cinquestelle non sta bene, preferiscono l’utopia (loro dicono di ispirazione roussoiana) di un popolo direttamente e permanentemente deliberante attraverso internet. Per realizzare questa utopia (versione ammodernata di teorie reazionarie che nel secolo scorso hanno prodotto regimi totalitari) bisogna (magari gradualmente, passo dopo passo) depotenziare, far perdere funzioni alla complessa e a volte complicata macchina della democrazia parlamentare. Un disegno palesemente eversivo, scritto a chiare lettere nei propositi politici del M5s: “Il M5s vuole realizzare la democrazia diretta, la disintermediazione tra Stato e cittadini, l’eliminazione dei partiti, i referendum propositivi senza quorum: i cittadini al potere”.

È il disegno che esce sostanzialmente confermato dalle parole pronunciate da Beppe Grillo, fondatore e tuttora garante del M5s, intervenendo in un dibattito organizzato da Davide Sassoli al Parlamento europeo il 23 settembre, due giorni dopo il referendum costituzionale: “Non credo assolutamente più in una forma di rappresentanza parlamentare ma nella democrazia diretta, fatta dai cittadini attraverso i referendum”. E ancora: “Alle elezioni ormai ci va meno del 50 per cento, è una democrazia zoppicante. Si cominciano a prospettare scenari come l’estrazione a sorte, perché no? Perché non posso selezionare una persona con certe caratteristiche?”.

Insomma, diciamo –per brevità- che le esternazioni di Di Maio e di Beppe Grillo non promettono bene, fanno pensare che i Cinquestelle non stanno affatto cambiando, o “evolvendo” come dicono molti esponenti del PD per giustificare il grande credito che viene loro concesso come compagni di strada per “una grande stagione di riforme”. E sull’onda dell’entusiasmo i dem promettono: non solo legge elettorale e revisione dei regolamenti parlamentari, ma anche abolizione dei decreti sicurezza di Salvini, e poi di Quota cento, la revisione del Reddito di cittadinanza e infine lo Ius Soli per dare la cittadinanza italiana a chi nasce, vive, studia e lavora in Italia.

Ma rimaniamo sul tema della riforma parlamentare, per fare due ulteriori precisazioni sulle ragioni del nostro pessimismo.

Il primo ragionamento è di carattere politico. Non solo è difficile pensare che i grillini si impegneranno seriamente in un percorso di riforma che dovrebbe portare ad un rafforzamento della democrazia rappresentativa (considerando le idee che tuttora circolano nel M5s e, come abbiamo visto, ribadite pubblicamente da esponenti di rilievo di quel partito), ma c’è anche da considerare il fatto che l’attuale situazione economica del Paese, per la crisi determinata dall’emergenza Covid -19, pone al governo e ai partiti che lo sostengono l’urgenza di affrontare problemi rispetto ai quali le riforme istituzionali passano automaticamente in secondo piano. Nei prossimi mesi  (e per lungo tempo) il problema  centrale sarà come rimettere in piedi il Paese ed avviare una nuova fase di sviluppo economico, mettendo a profitto le ingenti risorse che ci vengono messe a disposizione dall’Unione Europea. E naturalmente continuare ad occuparsi dell’emergnza sanitaria. Con il prodotto interno lordo che decresce al ritmo di 10 punti l’anno ed una disoccupazione che si teme raggiungerà cifre mai viste, gli italiani non faranno certo pressione sulla classe politica affinché si occupi di leggi elettorali, di regolamenti parlamentari e cose simili. Altre saranno le preoccupazioni. Con buona pace dei riformisti per il SI, la grande riforma istituzionale (della quale la riduzione del numero dei parlamentari doveva essere solo il primo piccolo passo) non ci sarà. Per lungo tempo ci sarà solo l’incongruenza di una riduzione del numero dei parlamentari fatta a casaccio.

Il secondo ragionamento è di carattere, per così dire, tecnico. Riguarda un problema che viene presentato come una questione di metodo.

Si è sentito spesso dire, nel corso della campagna elettorale referendaria, che il modo migliore per fare le riforme costituzionali è procedere per piccoli passi, per interventi minimi mirati, perché in passato tutti i tentativi di fare grandi riforme sono falliti, gli elettori li hanno bocciati. Questa tesi è stata riproposta da Antonio Polito in un editoriale apparso sul Corriere Della Sera del 24 settembre scorso: in materia costituzionale, gli elettori italiani “dicono di solito No a una Grande Riforma, …, ma possono dire Si a una Piccola Riforma, cioè ad interventi mirati, comprensibili nella loro semplicità, chirurgici, che cambiano un connotato senza stravolgere il volto”. Per quanto questo ragionamento possa essere improntato al buon senso, c’è in esso qualcosa che non convince

Va bene non illudersi che le grandi riforme si possano realizzare in quattro e quattr’otto, ma neppure  vorremmo rassegnarci  all’idea che nel nostro Paese le vere riforme non si possono fare se non col metodo di un piccolo passo alla volta e, quindi, dando per scontato che ci vorranno sempre tempi molto lunghi, anzi lunghissimi. Questo metodo comporta  il rischio che l’obiettivo che si vuole raggiungere si perda per strada, appaia sempre più lontano e sfocato (copyright Bentivogli), c’è il rischio che tutto si risolva in un vecchio vizio della politica italiana. Il Gattopardo insegna: “bisogna cambiare qualcosa perché tutto resti come prima”. Il rischio dell’immobilismo.

Bisogna invece non perdere la speranza che gli italiani possano diventare, politicamente, cittadini sempre più maturi e consapevoli, che perdano l’abitudine di rifuggire dalla complessità, di aspettarsi dai politici solo risposte semplici a questioni complesse. Dietro una eccessiva semplificazione ci può essere un inganno, perché non tutto può essere reso semplice. E bisogna sperare che i politici (più precisamente i partiti) si impegnino più frequentemente e seriamente a fare in modo che i cittadini abbiano strumenti adeguati per “concorrere a determinare la politica nazionale” (copyright  Costituzione Italiana). Perché, come ha insegnato Max Weber, attraverso la loro azione i partiti educano gli elettori alla democrazia.
Perciò è auspicabile che gli obiettivi che si vogliono raggiungere siano sempre chiaramente esplicitati e messi in primo piano, soprattutto quando si sceglie il metodo di operare per approssimazioni successive.

Del resto anche Polito, alla fine del suo discorso di elogio dei piccoli passi aggiunge una precisazione: “che i piccoli passi si possano però iscrivere in un unico disegno riformatore”. Ecco, è proprio questo il punto: avere un unico disegno riformatore. Un disegno ci vuole e, aggiungiamo noi, non può essere messo tra parentesi, o addirittura taciuto agli elettori. Perché non è tutto uguale.
Per rimanere all’esempio del referendum appena votato dagli italiani, una cosa è ridurre il numero dei rappresentanti all’interno di un disegno volto a rendere il sistema parlamentare più efficiente e un’altra cosa è ridurre il numero dei rappresentanti all’interno di un disegno volto a “superare” la democrazia rappresentativa . E la politica ha il compito di spiegare la differena ed aiutare i cittadini a comprenderla (eventualmente impegnandosi a creare le condizioni affinché possano comprenderla).
Se è così, allora per spiegare l’opportunità di una politica dei piccoli passi non si può prendere  come esempio buono il referendum del 20 settembre scorso. All’interno del  fronte del SI, quello che ha vinto, non vi era un unico disegno riformatore. PD e M5s hanno messo in secondo piano la definizione dei propri obiettivi (rendendoli così sfocati) e lasciato gli elettori nella difficoltà di capire quale direzione avrebbe potuto prendere il primo piccolo passo consistente nella riduzione del numero dei parlamentari. Non è un bel modo per educare gli elettori alla democrazia. Non c’è da stupirsi se poi a votare ci va solo il 50% degli aventi diritto. E i voti espressi acquistano sempre più (come dicono gli esperti) volatilità.

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