Alle radici del conflitto (breve excursus storico) / 1        
Dal 63 a.C. al 1939

Prima della colonizzazione romana (iniziata nel 63 a.C.) e per i due secoli successivi, la terra tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo era prevalentemente abitata dal popolo ebraico (regno di Giuda e Eretz Israel). A due grandi rivolte di quel popolo (avvenute nel 70  e nel 135 d.C.) i romani risposero con lo sterminio e la schiavizzazione. La maggior parte dei superstiti andò a cercare fortuna altrove (inizio della Grande Diaspora). Una minoranza rimase comunque in Palestina costituendo comunità ebraiche che poi furono sempre presenti in quel territorio fino al XX secolo. Ma anche le comunità sparse per il mondo mantennero perlomeno un legame ideale con quella che gli ebrei hanno sempre considerato “la terra promessa”.

L’islamizzazione della regione è iniziata nel 637 d.C. quando il Califfo Omar invase la Siria e la Palestina. Nel 638 i musulmani della penisola arabica iniziarono a stabilirsi lì, imposero l’Islam e dominarono la Palestina fino al X secolo.
Per contrastare le persecuzioni  praticate dagli Arabi (a quelli della penisola arabica erano subentrati quelli della penisola anatolica) gli Europei organizzarono le Crociate e nel 1099 conquistarono Gerusalemme massacrando i musulmani e gli ebrei che vi erano rimasti. Circa cento anni dopo (1187) gli arabi dell’Egitto, al comando del sultano Saladino, riconquistarono Gerusalemme dove operarono con la stessa ferocia dei cristiani. Nel 1517 gli ottomani scacciarono gli egiziani e fecero nuovamente della Palestina una loro colonia. Tale rimase per circa 400 anni.

Nel corso dei secoli, sulla base di motivazioni religiose, vi sono sempre stare migrazioni di ebrei verso la Palestina. Ma è nel XIX secolo che la corrente migratoria divenne più consistente. Le iniziative per la creazione di insediamenti ebraici nella Palestina ottomana si intensificarono anche a causa di pogrom nell’impero russo (1881-82 e poi 1903-06). Nel  1882 con l’organizzazione della “prima aliyah” (immigrazione verso la terra d’Israele) la comunità ebraica palestinese passò da circa 25mila persone a oltre 50mila.
Personalità ebraiche di spicco, come Theodor Herzl,  si resero conto quanto fosse difficile in Europa la piena integrazione degli ebrei  e maturarono la convinzione che per vivere in sicurezza le comunità ebraiche avessero bisogno di un proprio stato (queste idee furono poi alla base della fondazione nel 1897 del movimento sionista).

Per la realizzazione del suo progetto Herzl chiese il sostegno di vari capi di stato europei e arabi. Non avendolo ottenuto ripiegò sulla messa in atto di una strategia, per così dire, dei piccoli passi, ovvero una strategia di immigrazione continua verso la Palestina sostenuta da strumenti come il Fondo Nazionale Ebraico (istituito nel 1901 durante il V Congresso sionista, con lo scopo di acquistare terreni agricoli ed edificabili per il popolo ebraico).Tra il 1904 e il 1914 ci fu la “seconda aliyah”:  dalla Russia giunsero in Palestina altre 30mila persone.

Nel 1915 l’Alto Commissario britannico al Cairo Sir Henry McMahon riuscì ad ottenere l’aiuto dello Sceriffo della Mecca al-Husayn ibn ‘Alì nella lotta contro l’impero turco-ottomano promettendo come ricompensa parte del territorio di quell’impero per realizzarvi un paese indipendente. Sebbene nella promessa non si facesse menzione della Palestina, gli arabi credettero che essa avrebbe fatto parte del territorio del futuro stato arabo. L’anno dopo il ministro degli esteri inglese Arthur Balfour in una lettera ai rappresentati del movimento sionista scrisse che Il governo di Sua Maestà vedeva con benevolenza l’istituzione in Palestina di una National Home per il popolo ebraico.

Negli accordi internazionali che hanno fatto seguito alla fine della prima guerra mondiale tutto il territorio tra il Giordano e il Mediterraneo e un vasto territorio a est del Giordano furono affidati al governo inglese (mandato britannico del 1922). Diversamente da come avevano fatto i conquistatori del passato, gli inglesi non intendevano stabilirsi lì, imporre la propria lingua e religione e dominare la Palestina. Il compito che si erano assunti (assegnato dalla Società delle Nazioni) era quello di avviare un processo che portasse le popolazioni degli imperi sconfitti nella guerra mondiale a “sviluppare i loro organismi istituzionali” (in altri termini la costituzione di stati autonomi) in previsione di un ritiro delle potenze che erano risultate vincitrici (l’opposto cioè di quanto era avvenuto con le colonizzazioni precedenti compresa quella araba).

Gli inglesi per prima cosa si impegnarono nella costituzione di uno stato arabo autonomo nella Transgiordania (i territori ad est del fiume Giordano, ben il 73% dei territori ad amministrazione britannica, dove sorgeranno gli stati di Siria e Giordania) e mantennero  sotto la diretta gestione del Regno Unito solo l’area ad ovest del fiume (la Palestina propriamente detta). Rispetto a questa regione gli inglesi si proposero di adoperarsi affinché le popolazioni indigene presenti (principalmente arabi ed ebrei) trovassero il modo per convivere.

Si trattava di una regione considerata “sottopopolata” (un territorio grande come Piemonte e Valle d’Aosta abitato da circa 600mila persone) ed  economicamente “stagnante” . In una dichiarazione della commissione britannica per lo sviluppo della Palestina, in particolare per quanto riguarda la Galilea, si legge: “l’abbiamo trovata abitata da Fellah (contadini arabi) che vivono in baraccopoli di fango e soffrono gravemente della diffusa malaria. Grandi aree erano incolte. […] Non c’era quasi nessuna sicurezza pubblica, i Fellah erano costantemente soggetti a saccheggi da parte dei loro vicini nomadi, i Beduini”.

Quegli anni, accanto ad un continuo aumento della popolazione ebraica , registravano anche un forte aumento delle vendite di terre da parte dei latifondisti arabi agli immigrati. Questi ultimi potevano anche giovarsi di vecchie leggi dell’impero ottomano che permettevano di occupare terreni abbandonati e incolti da anni. Va poi rilevato che accanto alla immigrazione ebraica (soprattutto dall’Europa orientale) vi fu anche una consistente immigrazione araba (dalle regioni meridionali della Siria e dall’Egitto) verso le regioni della Palestina che incominciavano a registrare un certo sviluppo.
Gli inglesi tollerarono (non controllando bene i confini) queste immigrazioni perché erano viste come un fattore di sviluppo economico del territorio. Era una opinione abbastanza diffusa quella che era stata espressa nel 1914 dal quotidiano egiziano Al-Ahram: “I sionisti sono necessari per il Paese: il denaro che porteranno, le loro conoscenze, la loro intelligenza e l’industrializzazione che li caratterizza contribuiranno senza dubbio alla rigenerazione del Paese“.

Il ministro Balfour, nel promettere agli ebrei che giungevano per “ricostruire la terra ebraica” la fondazione di “un focolare nazionale”, aveva precisato che era da intendersi come una sorta di riconoscimento a livello internazionale della importanza della comunità ebraica presente. In altri termini, il governo britannico non prevedeva che la Palestina nel suo complesso dovesse  essere convertita in una patria nazionale ebraica, ma che tale “casa” dovesse essere fondata in Palestina, e precisava anche che “nulla deve essere fatto che  pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”.
Una dichiarazione che avrebbe potuto favorire il dialogo tra arabi ed ebrei, tanto è vero che uno dei più importanti leader arabi, Emir Feisal (che da lì a poco sarebbe diventato il primo re dell’Iraq) firmò un accordo (1919) con Chaim Weizmann, il rappresentante dell’Organizzazione mondiale sionista, per portare avanti insieme sulla base della dichiarazione Balfour le aspirazioni  sia degli ebrei sia degli arabi della regione. Purtroppo questa disponibilità a cooperare tra vicini non ha avuto molto seguito.
All’orientamento assunto dagli inglesi la popolazione araba mostrò una aperta ostilità che, dopo vari episodi di protesta, sfociò in rivolte sempre più violente, come i moti del 1929  e  la grande rivolta araba del 1936-39.

Nell’agosto del 1929, il fattore scatenante fu una vecchia contesa per l’accesso al Muro occidentale di Gerusalemme, sacro tanto agli arabi che agli ebrei. Alcuni gruppi di ebrei tradizionalisti avevano marciato nelle vicinanze del muro al grido “il muro è nostro”. Qualcuno mise in giro la voce che gli ebrei avevano infangato il nome del profeta Maometto e un “Comitato dei Guerrieri Santi in Palestina” diffuse un volantino che invocava una “guerra santa” contro i nemici dell’Islam. Le aggressioni contro gli ebrei si moltiplicarono. Il fatto più grave fu il “massacro di Hebron”, la città più popolosa della Cisgiordania sede di una secolare comunità ebraica, dove dimostranti arabi uccisero 68 ebrei, ne ferirono altrettanti e violentarono molte donne. Molti ebrei scamparono al massacro trovando rifugio proprio nelle case di cittadini arabi.

Dopo i moti del 1929 il governo inglese istituì una Commissione d’inchiesta su quanto era accaduto. L’inchiesta (Hope-Simpson) stabilì che non si era trattato di una rivolta contro l’autorità britannica. I disordini potevano essere considerati soprattutto come “un feroce attacco da parte degli arabi contro gli ebrei (per il quale “non è stata stabilita alcuna scusa sotto forma di precedenti omicidi da parte di ebrei”) accompagnato da una sfrenata distruzione delle proprietà ebraiche. Un massacro generale della comunità ebraica a Hebron fu evitato per un pelo”. In alcuni casi gli ebrei avevano reagito distruggendo proprietà arabe. Il Gran Mufti  di Gerusalemme Amin Al-Husseini (ovvero la suprema autorità giuridica-religiosa a Gerusalemme e del popolo arabo musulmano in Palestina, di nomina governativa) è stato individuato come uno dei responsabili dei disordini, anche se poi però collaborò con il governo per ristabilire la pace.

Secondo la Commissione la causa fondamentale dei disordini  è stata “il sentimento arabo di animosità verso gli ebrei”  conseguente alla continua immigrazione di ebrei  in Palestina e all’acquisto di terre da parte di essi, nonché “il timore che col tempo gli arabi sarebbero stati privati del loro sostentamento e passati sotto il dominio politico degli ebrei”. La Commissione mise anche in evidenza il fatto che “c’è stato un serio allontanamento da parte delle autorità ebraiche dalla dottrina accettata dall’Organizzazione Sionista nel 1922 secondo cui l’immigrazione dovrebbe essere regolata dalla capacità economica della Palestina di accogliere i nuovi arrivati”. “Tra il 1921 e il 1929 – si legge ancora nelle Conclusioni – ci furono grandi vendite di terre in conseguenza delle quali molti arabi furono sfrattati senza la fornitura di altre terre per la loro occupazione … La posizione è ora difficile. Non c’è terra alternativa che possa essere assegnata alle persone sfrattate. Di conseguenza si sta creando una classe di senza terra e scontenta”.

L’analisi della Commissione era corretta. Ma non teneva conto del fatto che il comportamento delle autorità ebraiche (Agenzia Ebraica) derivava anche dalla percezione che in Europa andava crescendo un sentimento di forte ostilità nei confronti degli ebrei e questo rendeva sempre più il vecchio continente un posto poco sicuro.

All’inchiesta Hope-Simpson seguì, da parte del governo inglese, la pubblicazione del Libro Bianco di Lord Passfield  (1930), che esprimeva un orientamento decisamente antisionista: conteneva dure critiche ad organismi vicini al sionismo come l’Agenzia Ebraica (che organizzava e favoriva l’immigrazione) e l’Histadrut (la Federazione Generale del Lavoro, che promuoveva l’occupazione di sola manodopera ebraica).

Fu emanata una serie di norme che di fatto mettevano in discussione il proseguimento dell’istituzione della Jewish National Home e favorivano una politica volta a frenare l’immigrazione ebraica: contingentando i permessi d’ingresso (cosa che però fece proliferare l’immigrazione clandestina) dando priorità all’impiego della popolazione araba e proibendo la vendita di nuove terre agli ebrei.
La reazione della comunità ebraica fu virulenta.

Gli ebrei reagirono duramente all’orientamento assunto dal governo britannico, organizzando manifestazioni di protesta in tutto il mondo. In Palestina l’Haganah (una organizzazione nata agli inizi degli anni 20 su base volontaria come milizia di difesa per  proteggere i Kibbutz dagli attacchi arabi) era andata crescendo e alle misure del governo di contrasto all’immigrazione reagì organizzando dimostrazioni di massa e sabotaggi. Dall’Haganah, considerata comunque troppo moderata, verso la fine del decennio si staccherà un gruppo che andrà a costituire l’Irgun: una vera e propria organizzazione militare clandestina che avrebbe preso di mira obiettivi sia arabi sia inglesi.

Del nuovo  orientamento del governatorato inglese non fu soddisfatta neppure la componente araba della Palestina. Gli arabi avrebbero voluto una condanna più netta dei “misfatti” del sionismo. Del resto gli inglesi non avevano affermato che mai e poi mai uno stato ebraico sarebbe nato in Palestina; si erano limitati a dire che la formazione di tale stato non rientrava nel programma del proprio mandato.
Intanto l’immigrazione di ebrei, soprattutto dall’Europa, continuava. E non poteva essere diversamente dal momento che la discriminazione e la persecuzione degli ebrei faceva ormai parte del programma politico di molti partiti e stati europei.

E proprio all’inizio di quella che sarebbe stata una delle più immani e dolorose tragedie della storia umana (il genocidio, ovvero la persecuzione e lo sterminio programmato, del popolo ebraico) scoppiò “la grande rivolta araba”, con l’obiettivo di arrestare il flusso migratorio degli ebrei verso la Palestina.

La rivolta iniziò nell’aprile del 1936 con uno sciopero generale, proclamato dal Supremo Comitato Arabo (un organismo fondato dal Gran Mufti di Gerusalemme), chiedendo la fine dell’immigrazione ebraica in Palestina e il divieto di vendita delle terre agli ebrei. I dimostranti chiedevano anche la fine del mandato inglese ed elezioni immediate, nella speranza di istituire un governo arabo, sulla base del fatto che gli arabi erano comunque in maggioranza. Gli scioperi avevano alle spalle anche giuste motivazioni salariali in quanto gli stipendi dei lavoratori arabi erano molto più bassi di quelli dei lavoratori ebrei. Ma fin da subito al primo posto vi furono motivazioni politiche di stampo nazionalistico. Gli scioperi furono seguiti da atti di sabotaggio e attentati terroristici, colpendo sia civili ebrei che militari inglesi (vi furono vittime anche tra gli arabi moderati).

Dopo sei mesi lo sciopero fu revocato.  ….  Il governo inglese istituì, nel 1937, la “Commissione Peel”, incaricandola di indagare le cause dei disordini e degli scontri tra arabi ed ebrei.
Gli atti di questa commissione rivestono una particolare importanza, non solo perché vi è formulata una proposta di spartizione del territorio situato tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo (allora tutto quel territorio era denominato Palestina) che risulta essere molto oculata, attenta a rispettare diritti e interessi di entrambe le parti, ma anche perché vi sono contenute testimonianze che fanno luce su alcuni punti chiave del conflitto tra arabi ed ebrei nella Palestina.

La Commissione guidata da Lord William Peel  propose la divisione della Palestina in due stati, uno ebraico, più piccolo, ed uno arabo. Gerusalemme e un’area circostante sarebbe rimasta sotto il controllo britannico. La commissione suggeriva anche di fare dei trasferimenti delle due popolazioni in modo da avere ciascuno stato abitato da una sola etnia. Inoltre, prendendo atto che nella parte araba vi era scarsità di territori coltivabili disponibili, auspicava l’avvio di un grande piano di irrigazione della regione a spese della Gran Bretagna. L’Agenzia ebraica fu favorevole al piano (i sionisti più intransigenti invece non erano d’accordo). Gli arabi lo rifiutarono senza esitazione mostrando la loro totale contrarietà a qualsiasi diritto per gli ebrei ad avere uno Stato.  Il piano di spartizione della Commissione Peel diventerà nel 1947 la base per la partizione della Palestina da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Nel corso dei suoi lavori, la Commissione ascoltò, tra gli altri, anche Amin Al-Husseini, il Gran Mufti di Gerusalemme, a proposito del suo insistente ricorso alla Commissione sul fatto che “i sionisti stavano rubando la terra araba, trasformando i contadini in senza tetto”.
Qui di seguito un breve estratto dall’intervista al Gran Mufti condotta da Sir Laurie Hammond:

H: … Lei dice che nel 1920 al momento dell’occupazione britannica, gli ebrei detenevano solo 100.000 dunam, è così? Ho chiesto i dati del catasto su quanta terra era proprietà degli ebrei al momento dell’occupazione. Sarebbe sorpreso di sapere che figurano non 100mila, ma 650mila dunam?» (un dunam equivale a mille metri quadrati, ndr)
M: «Può darsi che la differenza sia dovuta al fatto che molte terre sono state acquistate con contratti che non sono stati registrati».
H: «C’è una bella differenza tra 100mila e 650mila».
M: «In un caso hanno venduto 400mila dunam in un lotto solo».
H: «Chi? Un arabo?»
M: «Sarsuk. Un arabo di Beirut».
H: «Sua Eminenza ci ha dato l’immagine di arabi sfrattati dalle loro terre e di villaggi spazzati via. Quello che voglio sapere è: il governo della Palestina, l’Amministrazione, acquistò la terra e la consegnò poi agli ebrei?»
M: «Nella maggior parte dei casi i terreni erano stati acquisiti».
H: «Voglio dire, l’acquisizione forzata della terra sarebbe stata acquistata per scopi pubblici?»
M: «No».
H: «Non ottenuti mediante acquisizione forzata?»
M: «No».
H: «Ma queste terre, pari a circa 700mila dunam sono state effettivamente vendute?»
M: «Sì, furono vendute, ma il paese fu posto in condizioni tali da facilitare tali acquisti».
H: «Io non capisco bene cosa intende dire. Sono stati venduti. Chi li ha venduti?»
M: «Proprietari terrieri».
H:  «Arabi?»
M: «Nella maggior parte dei casi arabi».
H: «C’è stata costrizione a vendere, di qualsiasi tipo? Se sì, da chi?»
M: «Come in altri paesi, ci sono persone che per forza di cose, ragioni economiche, vendono la loro terra».
H: «Tutto qui?»
M: «Gran parte di queste terre appartengono a proprietari terrieri che hanno venduto il terreno malgrado i loro inquilini, che sono stati sfrattati con la forza. La maggioranza di questi proprietari non erano residenti ed hanno venduto la loro terra a scapito dei loro inquilini. Non palestinesi, ma libanesi».
H: «Sua Eminenza è in grado di fornire alla Commissione una lista delle persone, degli arabi che hanno venduto le terre, a parte i proprietari assenti?»
M: «Sì è possibile».
(Il testo dell’intervista al Gran Mufti, condotta da Sir Laurie Hammond, fa parte della documentazione dei lavori della Commissione. Stralci di quella intervista sono stati resi noti da vari siti web tra cui quello da cui è tratto lo stralcio dell’intervista qui riportato)

Dopo il fallimento della Commissione Peel  il governo inglese pubblicò (nel 1939) un libro bianco che conteneva norme nelle quali si ponevano limiti drastici all’immigrazione (non più di 75 mila persone nei successivi 5 anni e solo se inseribili nel tessuto economico-sociale palestinese, ovvero con il consenso arabo) e proponeva la creazione di un unico stato misto arabo-ebraico entro 10 anni, termine entro il quale il Regno Unito si proponeva di porre fine al suo mandato. Anche questa proposta, che pure non contemplava la creazione di uno stato ebraico, fu rifiutata dalle autorità arabe (in primis il Gran Mufti) che pretendevano il blocco totale dell’immigrazione. Una posizione critica verso il libro bianco ci fu anche dalla parte ebraica, che si preparò ad aumentare le iniziative in favore dell’immigrazione clandestina. (continua)

Immagine in evidenza: foto di Amr Albeeb su Unsplash
Le altre immagini, nell’odine: Nour-Tayeh; Nour-Tayeh; Thomas-Vogel; Cole-Keister su Unsplash

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