Antiamericanismo

Dal 15 Agosto in avanti abbiamo assistito ad un profluvio di commenti giornalistici grondanti antiamericanismo.
Molti di coloro che nel 2001 avevano condannato duramente l’intervento militare degli Usa in Afghanistan, senza avvedersi della loro palese contraddizione, hanno altrettanto duramente condannato la decisione degli americani di porre fine alla loro presenza militare in quel Paese. Al centro delle critiche la figura del presidente democratico Joe Biden che, certamente favorevole al ritiro, è stato però l’attuatore di una decisione presa e concordata nei tempi e nei modi con i Talebani dal suo predecessore Donald Trump, con l’accordo di Doha del 29 febbraio 2020. E, come ha ricordato Paolo Mieli sul Corriere Della Sera del 25 Agosto , “Nessuno o quasi nell’emisfero a cui apparteniamo ebbe alcunché da ridire sui patteggiamenti Usa di Doha”. Ora, però, tutti a parlare di disfatta americana e di ignominia per l’Occidente e tutti ad attribuirne la responsabilità al presidente Biden.

Ed ha ragione Paolo Mieli quando dice: “C’è qualcosa di improprio negli sberleffi, nei rilievi a tratti inutilmente offensivi dai quali in questi giorni è sommerso il presidente degli Stati Uniti. Da Ferragosto, quando i talebani sono entrati a Kabul, praticamente non è passato un attimo senza che da qualche parte del pianeta un politico (o, più spesso, un improvvisato commentatore di vicende asiatiche) non si sia sentito in diritto di spiegare al capo di Stato americano quali errori aveva commesso. E di indicargli cosa dovrà fare di qui al termine del suo mandato. Quasi sempre biasimi e suggerimenti sono stati accompagnati da sgradevoli considerazioni sulla sua cultura, sulla sua preparazione e perfino sul suo status mentale”.

Certamente una meno frettolosa predisposizione di modalità e mezzi, per rendere  più graduale il ritiro, avrebbe potuto consentire di sottrarre alla barbarie talebana un maggior numero di afghani che si sono macchiati della “colpa” di aver collaborato con gli occidentali. Ma è tutto da dimostrare che un ritiro più graduale e ordinato avrebbe evitato tragici episodi come quello della strage di civili e militari avvenuta all’aereoporto di Kabul il 26 Agosto per opera di terroristi kamikaze (l’attacco è stato rivendicato da una sezione regionale dello Stato Islamico – Islamic State Khorasan Province -ISKP).

Più che la facilità con la qualei talebani sono entrati a Kabul, praticamente senza colpo ferire (cosa che non ha nulla di sorprendente perché era scritto nei patti) è proprio l’attentato terroristico per opera dell’ISIS, la tempistica della sua realizzazione, il luogo scelto (il cuore di una zona sotto totale controllo dell’esercito americano) e l’entità del danno provocato (oltre 170 vittime tra civili e militari) che deve essere seriamente oggetto di riflessione perché costituisce un segno concreto della nuova strategia di attacco all’Occidente che i jihadisti intendono perseguire. La fazione Isis Khorasan (sigla mai comparsa prima) che ha rivendicato l’attentato non ha cercato nessuna copertura e nessuna complicità dei Talebani, anzi ha operato in contrasto con essi, giudicati troppo tiepidi col nemico  (e del resto i talebani hanno apertamente condannato l’attentato dell’ISIS).

Dopo l’annientamento del Califfato al confine tra la Siria e l’Iraq ad opera degli americani l’ISIS non è scomparso ma ha cambiato strategia: niente più sedi o addirittura califfati islamici in territori ben definiti e ben individuabili.
Domenico Quirico, su La Stampa del 27 Agosto , parla del  nuovo Isis come di “una demonicità senza frontiere”. E aggiunge: “I taleban vogliono la partenza degli americani, l’Isis ha bisogno che restino perché è solo nella guerra permanente che le occasioni possono moltiplicarsi, la loro jihad restare viva”.

Verosimilmente è così. E dunque, anche sul piano della lotta al terrorismo internazionale, era divenuta evidente l’urgenza di porre fine ad una guerra ormai strategicamente poco utile, oltre che eccessivamente costosa  (in termini economici e di sacrificio di vite umane). Ed è questo che hanno pragmaticamente fatto gli americani, con lo stesso pragmatismo col quale erano intervenuti dopo l’attentato alle torri gemelle per distruggere le sedi dei terroristi di al-Qaida nel nord dell’Afghanistan ed eliminare il loro capo Bin Laden (considerando anche il fatto che la permanenza per 20 anni in Afghanistan è costata agli Usa più di 1000 miliardi e circa 2500 soldati uccisi).

Si dice ora (con gli sberleffi di cui sopra) che l’Intelligence americana ha fatto flop a Kabul. Certo, i servizi segreti hanno passato al presidente Biden informazioni poco precise sull’entità e la dislocazione dei terroristi nel frastagliato universo dei Paesi islamici. È facile (e stupido) ridicolizzare le difficoltà incontrate dalla grande potenza in questo momento. Il fatto è che, come dicevamo, dopo la sconfitta del Califfato l’Isis ha cambiato strategia, ha abbandonato la velleità statalista ed ha scelto di privilegiare la via del sommerso e della disseminazione (ovunque si trovino sacche di miseria, insofferenza, disperazione). Ora è meno facile scovarli.

Ma, come ha dichiarato il presidente Biden, l’America continuerà nel suo impegno contro il terrorismo e a favore dei diritti fondamentali del popolo afghano come degli altri popoli, ma con altra strategia ed altri mezzi. Una prima conferma l’abbiamo avuta poco dopo il terribile attenato all’aereoporto di Kabul: gli Stati Uniti hanno condotto un attacco di droni contro un obiettivo dell’Isis in Afghanistan, uccidendo i due terroristi che avevano organizzato l’attentato dell’aeroporto . Eppure, la reazione americana e il suo indubbio successo è stata considerata da molti alla stregua di un fatto marginale. Anzi, non è mancato chi ha persino dubitato della sua realtà e insinuato che potrebbe trattarsi di pura propaganda politica.

Insomma, l’antiamericanismo non si placa.
Non si capisce cosa vi sia di tanto sbagliato nel ribadire che c’è un accordo che prevede l’abbandono del territorio afghano entro una data convenuta e va rispettato. Cosa c’è di tanto scandaloso, e di politicamente inaccettabile nelle parole di Biden che annunciano, di fatto, la decidione degli Stati Uniti di non voler più fare il gendarme del mondo?  (È  molto più inaccettabile, politicamente, il fatto che chi si indigna per il disimpegno americano è spesso lo stesso che si indignava per l’interventismo americano e che ora incomincia a storcere il naso davanti all’idea che noi, almeno come Unione Europea, dovremo prima o poi pensare di investire in armamenti e farci carico di una “difesa comune”).

“È evidente da molti segnali– come scrive Angelo Panebianco sul Corriere Della Sera del 21 Agosto – che quelli fra noi che l’hanno sempre detestata si apprestano ad istruire un «grande processo» contro la società occidentale, i suoi principi e le sue realizzazioni””.
E aggiunge:
Ma, attenzione, l’antiamericanismo in Europa non è mai stato solo espressione di una opposizione agli Stati Uniti. C’è molto di più. Neanche troppo nascosta dagli slogan antiamericani è sempre stato possibile scorgere l’ostilità per la civiltà liberale occidentale nel suo complesso, della quale gli Stati Uniti, dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi, sono stati guida e motore. L’antiamericanismo era ed è lo strato più superficiale. Negli strati più profondi c’è sempre stata la condanna in blocco per le libertà occidentali, politiche, civili ed economiche.
Come prova il fatto che l’antiamericanismo è andato a braccetto, invariabilmente, con l’elogio per i regimi autoritari e totalitari. A sinistra come a destra. C’è stato un tempo in cui l’antiamericanismo di sinistra si sposava con l’ossequio per l’Unione Sovietica e poi, in epoca post’68, per la Cina di Mao, per la Cuba di Fidel Castro, eccetera. Nello stesso periodo, nell’estrema destra, l’antiamericanismo esprimeva l’ostilità per quelle «demoplutocrazie» che, proprio in nome della civiltà liberale, avevano combattuto e sconfitto nazismo e fascismo
”.

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