Per una sinistra resiliente

Alla consultazione elettorale del 4 marzo 2018 le forze politiche di sinistra (in particolare il PD) sono state duramente sconfitte. Al governo di centrosinistra a guida PD è subentrato un governo composto da esponenti di due partiti populisti, la Lega e il M5s. Agli sconfitti l’onere di mettere in piedi una opposizione politica al governo in carica e definire linee di intervento per una futura ricandidatura alla guida del paese. Ma la sinistra ha mostrato di avere serie difficoltà ad elaborare la sconfitta, superare Il trauma subito e guardare avanti. D’altro canto, quanto si è verificato col voto del 4 marzo non è una situazione inedita. Prima che in Italia la socialdemocrazia ha subito pesanti sconfitte nel Regno Unito, in Spagna, in Francia e in Germania. Tutti paesi nei quali i partiti populisti vanno sempre più guadagnando consensi, come del resto in tutta Europa. È chiaro quindi che innanzitutto è il programma della sinistra progressista nel suo complesso ad essere entrato in crisi, a manifestare difficoltà a mettersi in sintonia con una realtà economica e sociale in continuo cambiamento sotto la spinta della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica in atto.
Ma la crisi generale della socialdemocrazia non spiega tutto. Su di essa si innestano poi specificità che sono proprie delle singole realtà nazionali. I motivi per cui è finita l’era Blair nel Regno Unito non sono del tutto uguali ai motivi per cui è finita l’era Renzi in Italia. Sarebbe sbagliato, ad esempio, non considerare il fatto che la recente esperienza di governo dei progressisti italiani (anni 2013 – 18) prende l’avvio proprio da una certa consapevolezza delle difficoltà che i socialdemocratici incontravano nella realizzazione dei loro programmi. Quindi dalla necessità di tentare vie nuove. Già nel 2012, in una intervista all’Unità, il futuro leader del PD spiegava la sua strategia in questi termini: “Blair, Clinton e Schroeder (e Prodi, Jospin e D’Alema) diedero negli anni ’90 un nuovo indirizzo alla sinistra mondiale. Ma ora penso che dovremmo provare una Nuova Terza Via. Il nostro orizzonte è una Terza Via tra la spirale austerità-recessione e la vecchia ricetta Keynesiana”. Sta di fatto che nei primi tre anni di governo il PD ha raggiunto il massimo di consensi che un partito della sinistra abbia mai raggiunto in Italia e che la sua azione di governo ha condotto il paese fuori da una crisi economica ritenuta “la più profonda e prolungata dal dopoguerra” (Giovanni Tria). Forse proprio perché è giunta dopo questi risultati positivi che la sonora sconfitta elettorale ha determinato in tutta la sinistra un grande disorientamento. Dentro e fuori il PD ha acquistato un certo credito l’idea che la pesante sconfitta subita porta a dedurre che tutto quanto è stato fatto negli ultimi anni vada rigettato. È una posizione che induce al pessimismo sulla possibilità di ripresa e, a ben vedere, è una posizione preconcetta, perché non tiene conto del fatto che non sempre le idee perdenti sono necessariamente anche idee sbagliate. Insomma, rispetto al passato prossimo, ci sono anche aspetti positivi da prendere in considerazione, che indurrebbero a non essere catastrofisti. E non essere catastrofisti è la condizione base per essere resilienti.
Naturalmente non bisogna cadere nel difetto opposto, accontentarsi di spiegazioni parziali o di comodo, non affrontare il nocciolo delle questioni: le risposte che la sinistra ha dato ai problemi del paese e ai bisogni emergenti sono state certamente insufficienti, e comunque sono state percepite come inadeguate.
La metafora della resilienza rappresenta compiutamente la sfida che la sinistra riformista (nel suo complesso) deve affrontare, se vuole continuare a svolgere un ruolo importante nella vita del nostro paese (nello specifico, in questa fase storica, il ruolo di opposizione): far fronte alle avversità degli eventi cercando al proprio interno ragioni e capacità per resistere e rigenerarsi.
Se ad una opposizione resiliente è bandito il pessimismo (condizione necessaria per non soccombere), non è invece bandito l’esercizio di una analisi critica, rigorosa e franca della situazione che si è venuta a creare, condizione necessaria per realizzare un cambiamento (ad oggi manca ancora, per esempio, una riflessione sull’azione di governo e sulla sconfitta subita che affronti e chiarisca nodi importanti per definire l’identità politica che dovrebbe caratterizzare nelle circostanze attuali un partito riformista).
Appare del tutto evidente quanto sia necessario e urgente passare da una sterile contrapposizione di punti di vista diversi (come è stato fatto finora) ad un vero confronto di idee.
Forse sarebbe opportuno (e più aderente alla realtà delle cose) riconoscere che un tentativo di introdurre un sostanziale rinnovamento nella azione politica, in senso riformista, c’è stato. E compiere, tutti insieme, uno sforzo per individuare in che cosa invece l’azione di rinnovamento non ha funzionato. Senza un tale sforzo, si rischia di non imparare nulla dal passato, di non andare mai avanti e di continuare a ripetere gli stessi errori.
E sarebbe anche opportuno avere ben presente quanto lo stesso politologo inglese che aveva teorizzato la Terza Via, Anthony Giddens, va dicendo ormai da anni: “L’accelerazione data ai cambiamenti sociali ed economici dalle innovazioni tecnologiche ha scardinato anche la Terza via. Essere di sinistra significa, anche oggi, avere determinati valori (promuovere l’eguaglianza, o almeno limitare la diseguaglianza; attivarsi per la solidarietà, non solo dallo Stato verso i cittadini ma anche tra privati, all’interno della propria comunità; proteggere i più vulnerabili, garantendo in particolare un sistema sanitario e altri servizi pubblici essenziali ai bisognosi). Ma è cambiato il contesto. La globalizzazione e la rivoluzione digitale hanno frantumato le vecchie certezze. Battersi per quei valori resta l’obiettivo, ma difenderli richiede strategie differenti. Il socialismo vecchia maniera non può più funzionare come modello”. E ancora: “l’azione nazionale non è più sufficiente. Il mondo è troppo globalizzato. Occorrono riforme a livello europeo”. E l’orizzonte europeo dovrà essere, appunto, al centro della nuova strategia politica della sinistra, in opposizione a chi, approfittando degli attuali innegabili limiti dell’UE, vuole farne un capro espiatorio per mascherare la propria incapacità di dare un futuro di sviluppo al nostro paese. L’Europa dovrà certamente fare passi avanti, verso più integrazione e più democrazia. Ma l’Europa, già ora, non è solo il 3% del rapporto deficit/pil. Non è solo burocrazia. Se questa è la percezione che ha il popolo, il problema principale non è l’Europa ma come fare in modo che la percezione del popolo cambi.
Tornando al percorso di riflessione sulla propria identità, che la sinistra dovrà compiere come necessario viatico per la propria rigenerazione, non dovrebbe riguardare, naturalmente, solo il recente passato ma anche il passato remoto. Vale la pena ricordare, a questo proposito, quanto ha scritto il filosofo Roberto Esposito sull’Espresso del 25 luglio 2018: “La resa ai nazionalismi aggressivi è evitabile soltanto attraverso una ripresa di grande politica che del Novecento recuperi gli elementi vivi, lasciandosi alle spalle quelli caduchi”. Secondo questo filosofo è stato un grave errore contrapporre innovazione e memoria, ignorando che la memoria è “l’ossatura della storia”. “La tradizione non è un peso morto di cui disfarsi. È ciò che veicola la voce del passato nell’apertura del futuro”. Esposito però ci ricorda anche che “è proprio la memoria ad insegnarci a non ripercorrere strade senza sbocco e che la storia non torna mai indietro”.
Invece, la tentazione del salto all’indietro è sempre forte quando è molta la difficoltà di elaborare una “visione nuova”. Come interpretare diversamente l’attenzione/attrazione che molti (sia dentro che fuori il PD) hanno in varie occasioni manifestato per quelle caratteristiche del M5s che (ad una analisi di superficie) lo renderebbero somigliante ad un partito della vecchia sinistra? Per il fatto di mettere al primo posto le politiche redistributive, ma anche per il suo modo di organizzare l’azione politica: il mito della presenza nei territori, insieme alla forte centralizzazione delle decisioni.
Insomma: bisogna considerare il fatto che, nell’area politica della sinistra riformista, sono presenti anime diverse, diversi modi di intendere l’identità di un soggetto che rappresenti ciò che oggi vuol dire essere di sinistra. Anime che, finora, non sono riuscite a realizzare un confronto pacifico. E così, ciò che potrebbe essere un fattore di arricchimento (perché le diversità sono anche il riflesso della complessità del mondo in cui viviamo) diventa il principale fattore di immobilismo. Eppure, se si vuole che la sinistra riformista continui ad avere un ruolo decisivo nella vita politica del nostro paese, uno sforzo nella direzione di superare questa empasse andrebbe fatto. Bisognerebbe, ora che appare sempre più evidente come all’orizzonte dell’agire politico della Lega e del M5s potrebbe esserci la messa in discussione di regole e principi che fanno del nostro paese una moderna democrazia, fare di necessità virtù e considerare che i diversi approcci presenti, per quanto distanti tra loro, non debbano costituire un impedimento alla condivisione dell’obiettivo di dare al paese una opposizione forte al governo populista e sovranista. Una opposizione che sia da argine alla involuzione della vita democratica e della realtà economica e sociale prefigurata nel “contratto” che regola l’azione dell’esecutivo.

Al di là del grande compito e del molto lavoro che spetta alle organizzazioni politiche della sinistra, è auspicabile che si creino molti spazi ove sia possibile la riflessione e il confronto e coinvolgano un numero sempre crescente di persone desiderose di diventare elettori più consapevoli e perciò più attivi, anche nel rapporto con i partiti dai quali intendano farsi rappresentare.

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