La formazione del governo Conte II: i protagonisti /2

La concretizzazione della pazza idea renziana ha impresso una accelerazione al processo (innescato dall’esito delle elezioni del marzo 2018) di scomposizione del quadro politico esistente; riaprendo giochi che sembravano già fatti e prospettive che sembravano ormai tramontate.

Era dato per scontato, dopo l’affermazione, in Italia ma non solo, di partiti che presentavano programmi (o comunque rivendicazioni) radicali (prevalentemente anti establishment e/o fortemente identitari) che i riformisti e i moderati avessero esaurito il loro ruolo, non incontrando più il favore degli elettori. Aver messo temporaneamente fuori gioco Salvini è servito a dare una iniezione di fiducia ed  offrire una opportunità ai moderati e ai riformisti di rioccupare la scena politica, per contrastare la deriva populista ed estremista, certo, ma anche per ridare voce alle esigenze di un rinnovamento della politica. Le due cose vanno di pari passo.

E in effetti, se guardiamo al confronto/scontro in atto all’interno e tra i partiti, ci rendiamo conto che questa necessità (ovvero che il contrasto al populismo si debba accompagnare ad un impegno per il rinnovamento della politica) incomincia ad emergere.

Nel discorso tenuto il 29 agosto al Quirinale dopo l’accettazione dell’incarico a formare il nuovo governo  Giuseppe Conte ha parlato di nuovo umanesimo come orizzonte ideale del Paese. Si riferiva con tutta probabilità all’umanesimo globale di cui parla il filosofo Edgard Morin (pensatore che Conte dice di apprezzare molto) che mette al centro l’uomo e le sue naturali inclinazioni, per affrontare i temi della persona e del pianeta. In questo orizzonte ideale Conte colloca il suo nuovo governo, che nel segno della novità si impegna a realizzare “un’ampia stagione riformatrice” che porterà l’Italia ad essere “un Paese che rimuova le diseguaglianze di ogni tipo”, seguendo i principi non derogabili scritti nella nostra Costituzione, come il “primato della persona, il lavoro come supremo valore sociale, l’uguaglianza nelle sue varie declinazioni, formale ma anche sostanziale, il principio di laicità ma anche di libertà religiosa. E infine più complessivamente la difesa degli interessi nazionali nel quadro di un multiculturalismo efficace fondato su collocazione euroatlantica e integrazione europea”.

Il cambiamento di rotta è evidente: l’ex e nuovo presidente del Consiglio è passato dal nazionalismo sovranista che aveva dominato la scena nel governo Conte 1 all’umanesimo globale che dovrebbe improntare l’azione del governo Conte 2.
Non possiamo negare che le parole del premier Conte esprimano, con molta enfasi retorica, l’esigenza di rinnovare i paradigmi della politica. E siamo colti da stupore (e anche, a dire il vero, un po’ dallo  sconcerto) di fronte ad un così rapido e profondo capovolgimento di prospettiva.
Ma il problema del nuovo esecutivo non è il carattere ambizioso dei cambiamenti annunciati. Il governo Conte 1 ci ha abituati a promesse mirabolanti che hanno poi avuto traduzioni pratiche insufficienti e discutibili (come l’”abolizione della povertà” o il “rimpatrio di tutti gli immigrati clandestini”). Il vero problema del nuovo esecutivo è quanto riuscirà a durare, navigando nei marosi prodotti dal processo di scomposizione in atto che riguarda le forze politiche tradizionali: il Pd e il centro-sinistra; FI e il centro-destra. Processo che era nell’ordine naturale delle cose ma che, come dicevamo, la pazza idea renziana ha contribuito ad accelerare.

Dopo il “capolavoro tattico” (copyright Renzi) che ha consentito di “mettere in minoranza Salvini con gli strumenti della democrazia parlamentare” la seconda conseguenza di quell’idea è stata la separazione di Renzi dal partito del quale era stato, per ben due volte, il segretario. Ma un segretario, ha dichiarato al quotidiano La Repubblica spiegando i motivi personali della sua scelta, “sempre trattato come un estraneo, come un abusivo”, anche quando ha vinto le primarie. “Ancora oggi –dice– c’è una corrente culturale che paragona i due Matteo mettendoli sullo stesso piano. È il riflesso condizionato di quella sinistra che si autoproclama tale e che non accetta di essere guidata da uno che non provenga dalla Ditta”. Ma al di là delle motivazioni di carattere personale, l’ex premier avanza anche motivazioni politiche e, riferendosi al nuovo gruppo dirigente del Pd, dice: “Mi fa uscire la mancanza di una visione sul futuro”.
E a proposito di futuro, quali scenari si aprono, ora, per il governo in carica e per la sinistra?

Renzi afferma che il governo non ha nulla da temere da Italia Viva (il neonato partito frutto della scissione). È plausibile. Se non altro perché costruire un partito che ha l’ambizione di percorrere “un’altra strada” (come recita il titolo dell’ultimo libro di Renzi) una strada fatta di “idee per l’Italia di domani” è una impresa che richiede tempo. Non avrebbe senso che Italia Viva lavorasse per far cadere il governo ora. Ha senso ciò che dice la capogruppo alla Camera del nuovo partito Maria Elena Boschi: “Abbiamo preso un impegno serio. Siamo leali, ma leali non vuol dire stupidi, leali non comporta un patto in cui tutto quello che viene posto dal M5s o dal Pd a noi debba andar bene”. Ciò vuol dire che alcune cose questo governo dovrà assolutamente realizzarle: niente aumento delle tasse, stabilizzazione del debito pubblico, misure  orientate alla crescita. Non solo per evitare che si crei un humus nel quale i consensi per Salvini tenderebbero più facilmente a crescere, ma perché questi obiettivi sono oggi prioritari per chiunque abbia a cuore l’interesse nazionale.
Il documento di programmazione economica, che il governo ha inviato a Bruxelles, queste cose in qualche misura le contiene. In una misura, in realtà, da molti giudicata insufficiente. Il che potrà costituire una fonte di preoccupazione per la tenuta del governo.

Per quanto riguarda invece il futuro della sinistra è presto per fare ipotesi ben fondate.
Renzi, negli ultimi sette anni, ha cercato di spostare il suo partito su posizioni di sinistra liberale. Per intenderci, il suo modello era la sinistra inglese e americana (Tony Blair, Clinton, Obama). La sinistra tradizionale presente nel Pd (che era in minoranza) lo ha contrastato in tutti i modi (fino a favorire la sconfitta dello stesso Pd al Referendum istituzionale del 2016 e alle elezioni politiche del 2018) ed è riuscita a riconquistare il partito (operazione Zingaretti). La scelta di Renzi di lasciare il Pd non era scontata, infatti molti esponenti che si definivano renziani non lo hanno seguito in quella scelta. La domanda che ci si può porre è: Renzi ha scelto di uscire dal Pd perché in questo partito il suo disegno di sinistra liberale non ha più spazio o perché ha deciso di abbandonare quel disegno? Noi propendiamo per entrambe le cose. Ma non ne siamo certi. E poi, si tratta di un discorso comunque alquanto complesso, che avremo occasione prima o poi di riprendere.
Ora il Pd si avvia ad essere un partito diverso da come lo concepiva Renzi e c’è da presumere che questa diversità si andrà sempre più accentuando con la prosecuzione dell’esperienza del governo Pd-M5s. Aver contribuito alla nascita di questo governo può sembrare una contraddizione. C’è però da dire che, secondo Renzi, era un passaggio obbligato se si voleva mettere il paese al riparo da una deriva di tipo sovranista. Ma, una volta compiuto questo passaggio, si può dire che in Italia sta nascendo (con Italia Viva) un partito che sarà alternativo sia al populismo sovranista di Salvini sia al polo Pd-M5s? È ancora presto per dirlo. Ciò potrebbe essere favorito dalla ventilata ipotesi di una possibile fusione (o comunque di alleanza strutturale) tra Pd e M5s. Sul piano elettorale il nuovo partito potrebbe occupare lo spazio di sinistra moderata lasciato vuoto dall’accordo Pd-M5s e da ciò che rimarrà dell’elettorato moderato di Centrodestra dopo la definitiva decomposizione di FI sotto la pressione di Salvini e della Meloni. Italia Viva potrebbe pescare anche tra coloro (e sono tanti) che oggi si rifugiano nell’astensionismo. E naturalmente tra coloro che rimarrebbero delusi dal governo Conte bis (soprattutto tra gli elettori del Pd e del M5s) se non riuscirà a ridare slancio all’economia del paese.
Se così fosse, la nuova “formazione di progressisti e liberali”, come l’ha definita il fondatore, potrebbe acquistare un certo peso ed esercitare una significativa influenza nella vita politica italiana. Su quali contenuti?
Dice Luigi Marattin, deputato aderente a Italia Viva, su Il Foglio del 17 settembre: “La parola d’ordine non può essere né negare il cambiamento (introdotto dalla globalizzazione – ndr) né proteggere passivamente dal cambiamento, bensì accompagnare al cambiamento non lasciando nessuno solo”.
Tra gli esempi che vengono fatti c’è quello che riguarda il futuro del mercato del lavoro: “Il futuro del mercato del lavoro italiano non risiede nel ritorno al sistema fordista novecentesco, all’abolizione del Jobs Act e al ripristino dell’art. 18, bensì nella riforma radicale del sistema di formazione professionale, nella sfida della produttività di sistema per alzare i salari, nella cogenza della trattazione collettiva con la legge sulla rappresentanza sindacale e in un maggior ruolo della contrattazione di secondo livello, nella tutela e valorizzazione del lavoro autonomo, specialmente se nelle nuove tecnologie. Il futuro del welfare italiano non sta nell’impiegare decine di miliardi per mandare tutti in pensione a 62 anni, ma nel prevedere forme di flessibilità in uscita per le figure più deboli e in un orientamento della spesa verso asili nido, sostegno alle nuove famiglie, alla genitorialità, all’occupazione femminile”.

La scissione subita dal Pd ha fatto tornare di attualità nella sinistra riformista il tema del rinnovamento della politica. Zingaretti ha più volte detto che intende dedicarsi alla riorganizzazione del partito, ad un suo rinnovamento perché vuole che cambi il modo di fare politica del Pd. Goffredo Bettini (molto vicino a Zingaretti) vuole cogliere l’invito di Emanuele Macaluso, un grande dirigente del passato, a “ritrovare il popolo” e ha scritto (sul Foglio del 23 settembre): “Se Salvini propone le sue forme, noi ne dobbiamo proporre di alternative. Non ci bastano scampoli di un buon programma. Da quanto non proponiamo ai giovani un nostro modello di società, comportamentale, di valori costitutivi?”. Ma per fare tutto questo, e insieme una ristrutturazione organizzativa del partito, occorrerebbe un nuovo congresso, anche per valorizzare, dicono alcuni, il grosso della componente renziana che ha fatto la scelta di restare nel Pd. Per ora la discussione su questi temi è ancora agli inizi e il segretario è piuttosto impegnato, invece, su come allargare il campo di un eventuale nuovo Pd ai Cinque stelle o a loro pezzi, che vengono visti come una parte di popolo da recuperare.

Il tema del rinnovamento della politica emerge anche nella cosiddetta destra moderata.
Ne è un esempio l’appello di Mara Carfagna pubblicato il 30 agosto sul quotidiano Il Foglio. Carfagna ammette che “la formula che ha garantito al centrodestra un ruolo nella politica nazionale dal ’94 ad oggi è finita. … La destra sovranista ha fatto scelte di campo che costituiscono una rottura radicale con il modello di centrodestra liberale. … La destra repubblicana e liberale ha pagato un prezzo altissimo al tentativo di restare politicamente collegata alla narrazione sovranista: prezzo elettorale …, prezzo reputazionale …, prezzo negli equilibri interni. … Recuperiamo una visione autonoma, riprendiamo a fare politica e a raccontare l’Italia che vorremmo: un Paese libero dalle ansie dell’impoverimento e dall’incertezza del futuro che dilagano nel ceto medio, un Paese europeo nel senso migliore – buoni salari, meno tasse, servizi all’altezza delle tasse che si pagano – e amico delle categorie dimenticate dalla narrazione dell’“uomo forte”, il Sud, le competenze, le donne, i moltissimi italiani che hanno ancora l’ottimismo e la forza di investire e intraprendere. … E’ finita una stagione, e non è più possibile cullarsi nella nostalgia dei bei tempi andati, coltivando l’idea impossibile di restaurarli. … Re-inventare il centrodestra deve essere la nostra priorità … Passata l’ubriacatura sovranista che ha consegnato il Paese alle sinistre, penso che ci sia spazio per ricostruire l’unico centrodestra che può governare il Paese: riformatore, alternativo alle burocrazie parassitarie, capace di parlare al Nord e al Sud con la stessa efficacia e di valorizzare i territori senza lasciare nessuno indietro, forte in Europa e in grado di orientare le scelte dell’Unione. Un centrodestra popolare, liberale, europeista, garantista, che non aspiri solo a cavalcare i sondaggi, ma sappia trovare la strada per tornare al governo e determinare il futuro italiano”.
Purtroppo, per ora la linea Carfagna appare nettamente in minoranza. La destra, anche quella non-sovranista di FI resta ancora, in qualche modo, collegata alla narrazione salviniana. Certo, Berlusconi vede dei limiti nel populismo di Salvini, ma cerca ancora una alleanza con lui, nella speranza che si possa prima o poi ricostruire il vecchio Centrodestra. Il vecchio leader non coglie la spinta innovatrice proposta dalla Carfagna e FI continua nel suo ormai inarrestabile declino. Una situazione che non favorisce solo Salvini (cioè il sovranismo che Berlusconi a parole dice di voler contrastare), ma anche FdI, la formazione di destra radicale di Giorgia Meloni.

In definitiva, gli eventi che finora hanno caratterizzato la nuova fase politica del nostro paese, apertasi con il passaggio dal governo Conte 1 al governo Conte 2, ci dicono che il processo di scomposizione del vecchio assetto e di definizione di una nuova offerta politica è ormai in corso.

l’immagine in evidenza è tratta da ilmattino.it

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