Le elezioni politiche danesi e la questione immigrati

Le elezioni politiche che si sono svolte in Danimarca il 5 giugno sono state vinte dal Partito Socialdemocratico che, in coalizione con altre formazioni di sinistra, ha ora la possibilità di ritornare alla guida del paese, dopo una parentesi di 4 anni, spodestando la coalizione di centro destra che aveva al suo interno una formazione euroscettica e xenofoba (il Partito del Popolo Danese, uno degli alleati europei della Lega di Salvini). Questo risultato, si legge sui giornali, è da attribuire alla segretaria dei socialdemocratici, la quarantunenne Mette Frederiksen, che proponendo una linea di contrasto all’immigrazione è riuscita a sottrarre consensi ai populisti e più in generale alla destra.

Già solo leggendo i titolo dei giornali si capisce che la linea adottata dalla Frederiksen è vista come una grossa anomalia, perché tradizionalmente considerata appannaggio della destra. Ad esempio:

  • Il Foglio:   Con la danese Mette la sinistra fa la dura sull’immigrazione
  • Il Giornale:   La rivincita di Mette. Una socialdemocratica con le idee di destra
  • Panorama:   Danimarca, la sinistra vince con le ricette dei populisti sui migranti
  • Quotidiano.net:   Danimarca, la sinistra fa la destra (e vince).

Nella sinistra (specie nella cosiddetta sinistra radicale)molti considerano la linea della Frederikson più che  una anomalia una politica sbagliata, di quelle che snaturano l’identità stessa della sinistra. E infatti, alcune delle piccole formazioni che si collocano alla sinistra del Partito Socialdemocratico Danese hanno già annunciato che non intendono appoggiare un governo guidato dalla Frederiksen.

E allora vale la pena fare una riflessione un po’ più puntuale sulla linea politica proposta dalla segretaria dei socialdemocratici danesi (che tra l’altro è anche riuscita a realizzare l’unità all’interno del suo partito). Come racconta Paola Peduzzi sul Foglio del 7 giugno, la Frederiksen, senza trascurare quelli che sono i temi storici dei socialdemocratici, “ha guardato analisi, sondaggi, studi, rilevazioni per scoprire che il 75% degli elettori ha a cuore la sicurezza del proprio paese e vuole misure dure sull’immigrazione”.
Di conseguenza si è presentata alle elezioni con un programma che, accanto a temi (considerati comunque prioritari) come  piena occupazione, welfare, lotta al cambiamento climatico, ha inserito quello del contrasto all’immigrazione senza regole.
 Ha parlato di fine dell’austerità e di più spesa pubblica (sostenuta anche da maggiori tasse alle imprese); di voler riparare i guasti operati dal governo di centrodestra in materia di welfare, soprattutto per quanto riguarda la salute e l’istruzione (erano stati chiusi un quinto degli ospedali e il 20% delle scuole pubbliche); ha parlato della necessità di investire nella lotta al degrado ambientale (del territorio della Danimarca fa parte la grande isola polare della Groenlandia i cui ghiacci si stanno sciogliendo) e, tra i bisogni dei cittadini, ha considerato importante anche quello di avere una immigrazione più regolamentata.
Insomma, guardando le cose un po’ più attentamente, e considerando il quadro generale nel quale si inserisce la sua proposta, si capisce che la Frederiksen ha fatto ciò che normalmente deve fare una sinistra riformista: guardare ai problemi del proprio paese ed affrontarli in maniera “pragmatica”, ovvero cercando di coniugare i temi che da sempre caratterizzano l’azione politica dei partiti di sinistra con ciò che l’interesse generale pone all’ordine del giorno.
È questo un primo importante messaggio che ci giunge dalle elezioni danesi e riguarda tutti coloro che hanno a cuore le sorti della sinistra riformista. Se si riesce a parlare a tutti i cittadini è possibile che si vincano le elezioni (passaggio indispensabile per fare le riforme). Non è una cosa banale e scontata. Implica abbandonare vecchi approcci ideologici inconcludenti e assumere un atteggiamento che pone al centro della politica quello che Mak Lilla chiama il “paradigma della cittadinanza”. L’opposto del rincorrere il multiforme universo delle identità. Implica pensare al bene comune e a come difenderlo, col duro e paziente lavoro di “convincere persone molto diverse tra loro a prendere parte a un’impresa collettiva”.
La pratica riformista è questo. Può richiedere alcuni compromessi ma presenta il vantaggio di non tagliare a priori i ponti con chi esprime punti di vista differenti.

Mette  Frederiksen, con la sua iniziativa, ha sottratto il tema dell’immigrazione alla strumentalizzazione operata dai populisti (che infatti hanno dimezzato i consensi) e l’ha consegnato alla logica del confronto di idee tra i cittadini danesi.

D’altra parte, se la Frederiksen non avesse vinto le elezioni, se per i prossimi 4 anni al governo fosse rimasto un partito xenofobo forse per gli immigrati si sarebbero prospettati tempi molto più duri. Non possiamo dirlo con certezza. E ci preme anche dire che comunque ha suscitato in noi delle perplessità il fatto che i socialdemocratici abbiano sostenuto alcune misure particolarmente dure  riguardo gli immigrati varate dal precedente governo. Ma ci conforta constatare che i toni sono stati diversi. Durante la campagna elettorale, la segretaria dei socialisti danesi ha così risposto alle varie critiche ricevute: “ Non sei una persona cattiva perché sei preoccupata per l’immigrazione”. E il modo in cui è stato approcciato il problema è quello giusto: prendere atto che l’immigrazione è un tema che preoccupa gran parte dei cittadini e fare propria questa preoccupazione. Sarà interessante vedere con quali concrete misure il tema sarà affrontato e con quali risultati. Per ora possiamo dire che, nel complesso, la proposta elettorale della Frederiksen si muove secondo una linea di intervento simile a quella avviata in Italia dal ministro socialdemocratico Minniti. Questo per dire che Metta Frederiksen non è la sola, nella sinistra europea , ad aver posto con forza il problema della regolamentazione dei flussi migratori.

La seconda importante cosa che ci dicono le elezioni politiche danesi è che l’ondata populista non è poi così irresistibile.
Alle elezioni del 2015, il Partito Popolare Danese (la principale formazione apertamente euroscettica e xenofoba) era balzato dal 12 al 21 per cento divenendo il secondo partito della Danimarca. Ora, alle elezioni del 5 giugno scorso ha conquistato solo l’8%; e molto peggio è andata alle altre formazioni di destra. Le elezioni in Danimarca confermano un dato già verificatosi in vari altri paesi europei: i partiti populisti sono cresciuti in poco tempo (avendo come principale cavallo di battaglia il contrasto all’immigrazione) e in altrettanto poco tempo stanno perdendo consenso. Ciò mostra che quel consenso non era basato su convincimenti ben radicati. E quindi c’è spazio per politiche che impostino il tema dell’immigrazione in termini diversi da quelli finora usati dalla destra populista. Bisogna vedere se la Frederiksen avrà voglia e capacità di farlo.
Sono quattro i paesi europei che negli ultimi mesi hanno avuto elezioni politiche e in tutte e quattro i partiti populisti (quelli di destra ma anche quelli di sinistra) hanno subito sonore sconfitte. La sconfitta delle formazioni populiste non è più una novità ma sta diventando un trend. Spesso si tratta di sconfitte che fanno seguito ad esperienze di governo. Dopo cioè che i populisti hanno mostrato serie difficoltà a tenere fede alle promesse fatte durante le campagne elettorali.

La terza indicazione che ci viene dalle elezioni danesi (insieme a quelle finlandesi e a quelle spagnole) è che  quando perdono peso i populisti riacquistano peso in primis i partiti della sinistra riformista tradizionale.
Questo ci consente di dire che le analisi (diventate quasi una moda) che un po’ troppo sbrigativamente hanno sentenziato la fine  del vecchio dualismo tra centrodestra e centrosinistra e preconizzato che d’ora in poi le contrapposizioni saranno sempre più tra le ali estreme erano, in fondo, campate in aria. È un tema che abbiamo affrontato in un precedente post, al quale rimandiamo.

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