L’identità non è di sinistra

Nel libro “L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica”1Mark Lilla, L’identità non è di sinistra. Oltre l’antipolitica, Marsilio Editore 2018, lo storico americano Mark Lilla si chiede come potrà la sinistra fermare la crisi di fiducia che gran parte dell’opinione pubblica manifesta nei suoi confronti.
Lilla risponde  che per prima cosa la sinistra deve liberarsi di una concezione radicalmente individualista della politica che si è sviluppata negli ultimi decenni, quella che viene chiamata “politica identitaria” e che non è né di sinistra né liberale.

La politica identitaria, nella cui trappola sono caduti anche i progressisti e i liberal, non offre una visione comprensiva della società, dell’economia e della cultura, non sviluppa alcun interesse per la politica estera. Chiusa com’è nella prigione della soggettività, non è in grado di offrire una chiave interpretativa per spiegare il mondo.

Naturalmente, l’autore ha come riferimento per la sua analisi la realtà americana.


In America il termine “identità” è stato usato per la prima volta in politica negli anni settanta, in riferimento alle diverse identità di gruppi e minoranze.

Il tentativo era di mobilitare le varie anime del popolo, di suscitare un qualche senso di appartenenza.


In quel contesto …  nasce la retorica dell’orgoglio: ogoglio nero, orgoglio gay e, a seguire, orgoglio di qualunque altro gruppo discriminato.

Ma mentre l’energia politica della New Left andava dissipandosi e l’uomo americano diventava sempre più concentrato sulle piccolezze del proprio self, la parola identità è stata impiegata per indicare il nostro io interiore, un’entità irripetibile che reclamava protezione. …
Verso gli anni ottanta questa concezione ha fatto un balzo in avanti: si è affermata allora l’idea che l’identità personale doveva essere rappresentata ed espressa attraverso l’azione politica.

La sinistra ha concentrato buona parte delle proprie energie su temi specifici che ruotavano attorno al centro di gravità dell’autodefinizione  per  colmare il vuoto che il collasso del progetto della sinistra dei diritti civili aveva lasciato. I liberal erano rimasti orfani di cause comuni a cui appellarsi: la guerra del Vietnam era finita, la classe operaia votava per la destra e lo stato sociale non era in grado di risollevare le sorti delle nostre città devastate. Che cosa restava?

Avvampavano, nella società, tante battaglie che non erano immediatamente riconducibili a un’ideologia onnicomprensiva: l’ambientalismo, il femminismo, l’attivismo contro gli armamenti nucleari e così via.

Per seguire quella molteplicità incomprensibile la sinistra si è disgregata, diventando una litigiosa famiglia di movimenti sociali senza una visione comune del futuro.
Si tratta di una concezione, dice Mark Lilla, che sta rapidamente attraversando l’Atlantico e intacca anche il vocabolario politico europeo, dove il termine identità è storicamente associato a movimenti conservatori, nazionalisti e neofascisti .

Ma le condizioni storiche per cui nel vecchio continente la trama politica dell’identità si è sviluppata in modo diverso rispetto all’America ora sono scomparse: Il marxismo è tramontato, le società europee sono diventate più atomizzate e stanno sperimentando massicci flussi migratori da paesi extraeuropei. Le famiglie sono sempre più piccole, la partecipazione religiosa è in crisi,la tecnologia ci ha divisi invece che unirci.

È comprensibile che questa condizione alimenti lo sviluppo di una questione identitaria di destra. Ma è possibile anche che si sviluppi la sua versione di sinistra. È auspicabile? Secondo l’autore, certamente no. E comunque questo è un vero problema, perché siamo alla confluenza di dinamiche sociali e politiche perfette per alimentare la nascita di una versione europea della identity politics di sinistra.

Se la sinistra vuole tornare a vincere le elezioni e a governare le istituzioni politiche nel lungo periodo, così da poter mettere in atto importanti programmi di riforma, non deve mettere al centro politiche identitarie, che fanno perdere di vista ciò che condividiamo come cittadini e ciò che ci lega come nazione.
Specialmente in Europa, la politica identitaria non è che un segnaposto, una forma antipolitica che, mentre la sinistra aspetta la comparsa di qualche nuova idea come Estragone e Vladimiro aspettano Godot, potrà avere solo un ruolo marginale.
Nonostante le differenze, Europa e Stati Uniti hanno un problema comune: il futuro della sinistra. E in America come in Europa la sinistra, se vuole avere un futuro, dovrà essere in grado di riorientarsi sul paradigma della cittadinanza.
Emblematiche in questo senso le parole del senatore democratico Edward M. Kennedy che Lilla pone ad epigrafe del primo capitolo del su libro:


Dobbiamo comprendere che essere un partito che ha a cuore i lavoratori è diverso che essere un partito laburista. Essere un partito che ha a cuore le donne è diverso che essere il partito delle donne. Il nostro può e deve essere un partito che ha a cuore le minoranze, ma senza diventare il partito delle minoranze. Prima di ogni cosa, siamo cittadini.

La cittadinanza, il concetto centrale della politica democratica, è un legame che unisce tutti i membri di una società politica nel tempo, indipendentemente dalle loro caratteristiche individuali, dando loro diritti e doveri.
La cittadinanza, dice Mark Lilla, ovvero il “noi” è il luogo in cui tutto ha inizio.

È vero, la parola “cittadino” puzza di vecchio e, per le persone di una certa età, evoca immagini di maestre che ticchettano con la bacchetta sulla lavagna nelle ore di educazione civica. Ma ha un grande potenziale democratico. … Ciò dipende dal fatto che la cittadinanza descrive uno “status politico”, niente di più e niente di meno. …
In questo snodo della storia è fondamentale concentrarsi su questo status politico condiviso, non sulle nostre differenze palesi. Si tratta di un’arma decisiva nella battaglia contro il dogma reaganiano2che considera come assioma il primato dell’autodeterminazione sui tradizionali legami di dipendenza e responsabilità. Ha una grammatica adatta a discutere ciò che è mio e ciò che è tuo, non ad invocare il bene comune, perché sottolinea il fatto che siamo parte di un’impresa comune che “noi”, il popolo, abbiamo liberamente messo in atto. Non siamo, in sostanza, particelle elementari. …
La cittadinanza non è una identità nel senso in cui intendiamo oggi il termine, ma offre una via per incoraggiare le persone a mettersi nei panni degli altri. O almeno propone un modo per parlare di ciò che già hanno in comune. …

In un’era in cui dovremmo educare i giovani a pensarsi come cittadini con dei doveri gli uni verso gli altri, li spingiamo invece a esplorare la tana dell’io. La terribile verità è che non abbiamo una visione politica da offrire al paese, e il modo in cui pensiamo, parliamo e agiamo impedisce che questa emerga. …
È difficile discutere di visioni politiche senza sembrare lievemente ridicoli. Non sono oggetti che si possono comprare. Non si possono coltivare, estrarre o tantomeno cacciare. Non esistono laboratori per scoprirne di nuove, né esiste una fila di candidati con il curriculum in mano pronti ad essere assunti come ideologi. Una visione politica emerge spontaneamente dalla congiunzione puntuale di una nuova realtà sociale, di un’ idea che afferri questa realtà e di leader capaci di instillarla nella coscienza collettiva, in modo che le persone se ne sentano partecipi. L’arrivo di leader benedetti da tale dono è imprevedibile … Tutto quel che possiamo fare è prepararci.

Con il pamphlet “L’identità non è di sinistra”, lo storico Mark Lilla ha inteso dare un suo contributo a questa preparazione, raccontando ciò che ha caratterizzato l’azione politica dei liberal americani durante la lunga era reaganiana culminata nella elezione di Donald Trump alla Casa Bianca e gli insegnamenti che se ne possono trarre.

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