Alle radici del conflitto (breve excursus storico) / 3 
Un luogo dove vivere in pace e sicurezza

Come abbiamo visto, dopo la grande rivolta araba, alla fine degli anni 30 il governo inglese aveva  avanzato due proposte volte alla soluzione del conflitto tra arabi ed ebrei nella regione storica della Palestina. La prima proposta in ordine di tempo prevedeva di istituire due stati autonomi e indipendenti. Essa fu rifiutata nettamente dai leader arabi, primo fra tutti il Gran Mufti di Gerusalemme Amin Al-Husayni (costituirà, dieci anni dopo, la base per il piano di partizione della Palestina da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite).

Stessa sorte capitò alla successiva proposta, quella di avviare un percorso che avrebbe portato, entro dieci anni, alla istituzione di un unico stato misto arabo-ebraico.

Tra i capi arabi vi era il timore di ritrovarsi con il tempo a essere etnia di minoranza in una nazione ebraica. Per venire incontro a questa preoccupazione, nel libro bianco del 1939 gli inglesi stabilirono che avrebbero limitato gli accessi ad “un massimo di 75 mila coloni nei successivi 5 anni, a patto che fosse possibile assorbirli nel tessuto sociale ed economico palestinese”.
Che non si trattasse di una dichiarazione di intenti puramente formale lo dimostrano le severe misure di contrasto all’immigrazione clandestina (come i pattugliamenti di confine e il blocco navale) che gli inglesi hanno messo in atto per tutto il resto del loro mandato. Quelli che venivano catturati, erano internati in campi di detenzione nell’isola di Cipro o rinviati in Europa (famoso il respingimento della nave Exodus nel 1947 con un cario di 4.515 profughi).

Del resto, i dati relativi alla composizione della popolazione della Palestina in quegli anni (stando a quanto riportato nella Enciclopedia Treccani) mostrano che tutto sommato (cioè nonostante aumentasse il ricorso alla immigrazione clandestina)non vi è stata una crescita spropositata della componente ebraica: nel 1941 la popolazione era così ripartita per religioni: 905.865 Musulmani, 125.365 Cristiani, 473.880 Ebrei e 12.880 di altre comunità. Nel 1948 gli Arabi musulmani erano circa 1.000.000, gli Arabi cristiani circa 150.000, gli Ebrei circa 700.000 (secondo altre fonti alla fine del 1947 la Palestina mandataria contava circa 600.000 ebrei  a fronte di 1.200.000 arabi).

Dunque la possibilità di costruire uno stato multietnico in cui la comunità musulmana non fosse in minoranza era reale. Quella occasione fu buttata via perché prevalse la motivazione di natura religiosa/ideologica di una netta contrarietà a qualsiasi diritto per gli ebrei ad avere uno Stato.

Per scongiurare l’eventualità che venisse riconosciuto un tale diritto, come abbiamo visto, i leader arabi palestinesi, capeggiati dal Gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husseini, si erano schierati con Hitler e Mussolini adoperandosi nel reclutamento di musulmani nelle formazioni delle Waffen-SS ed in quelle del Regio Esercito nella speranza che una vittoria dell’Asse consentisse di liberarsi della presenza degli ebrei.

D’altro canto, non si può dire che i leader ebraici condividessero pienamente l’orientamento del libro bianco del ’39, con le pesanti limitazioni all’immigrazione in esso contenute. Le loro preoccupazioni non furono principalmente di natura ideologica ma derivavano in gran partedal fatto che, dopo l’emanazione delle leggi razziali in molti paesi europei, la persecuzione degli ebrei andava assumendo dimensioni sempre più drammatiche. La proposta del governo inglese non dava una risposta pienamente soddisfacente alle loro preoccupazioni, anche se in qualche modo ne teneva conto.

L’ala radicale del movimento sionista la osteggiò, mettendo in atto anche azioni di tipo terroristico. Organizzazioni sioniste come l’Irgoun, considerando le persecuzioni nazifasciste, rivendicavano il diritto a un’immigrazione illimitata di ebrei nella Palestina. Gli ebrei d’Europa, gli scampati allo sterminio, avevano disperatamente bisogno di un luogo dove poter vivere in pace e in sicurezza. Si recavano in Palestina anche perché in molti paesi (compresi gli Stati Uniti) veniva loro negato l’ingresso. Il congresso sionista tenutosi a New York nel 1942 votava una mozione nella qual si rivendicava uno Stato ebraico sull’intero territorio palestinese.
L’ala moderata di orientamento socialista, capeggiata da David Ben Gurion, caldeggiava l’idea di costituire uno Stato solo sui territori già occupati. Alla fine, come vedremo, questa idea prevarrà. Ma nell’immediato le organizzazioni radicali aprirono le ostilità, sia contro gli arabi sia contro gli inglesi (per es. l’Irgoun, nel 1946, in risposta ad una retata contro ebrei sospettati di terrorismo, compì un attentato all’Hotel King David di Gerusalemme , dove risiedeva il Comando militare del Mandato britannico, provocando ben 91 morti).

Il governo britannico si dichiarò incapace di conciliare le conflittuali pretese delle due comunità presenti in Palestina e nel mese di Aprile del 1947 chiese che la “Questione palestinese” venisse assunta dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La richiesta fu accolta e venne costituita una Commissione speciale (United Nations Special Committee On Palestine) con il compito di formulare proposte per il futuro della regione.

L’attenzione ai timori della popolazione araba fu presente anche nei lavori della UNSCOP che, nel settembre 1947, presentò un Piano di partizione della Palestina nel quale si prevedeva la creazione di uno Stato arabo ed uno Stato ebraico indipendenti , con Gerusalemme sotto il controllo internazionale. In particolare la partizione prevedeva: uno Stato ebraico con una maggioranza di ebrei (498.000 a fronte di 407.000 arabi); uno Stato arabo con un totale di 735.000 abitanti di cui solo 10.000 ebrei.

Con quale spirito aveva lavorato la Commissione delle Nazioni Unite lo apprendiamo da una sua dichiarazione: “una popolazione araba con oltre 1.200.000 abitanti ed una popolazione ebraica con oltre 600.000 abitanti con un’intensa aspirazione nazionale, sono sparsi in un territorio che è arido, limitato, e povero di tutte le risorse essenziali. È stato pertanto relativamente facile concludere che finché entrambi i gruppi manterranno costanti le loro richieste è manifestamente impossibile in queste circostanze soddisfare interamente le richieste di entrambi i gruppi, mentre è indifendibile una scelta che accettasse la totalità delle richieste di un gruppo a spese dell’altro”.

Lo Stato ebraico proposto aveva un territorio più ampio di quello arabo (circa il 55% del territorio complessivo); comprendeva sì il vasto deserto del Negev confinante con l’Egitto, ma anche gran parte delle terre fertili (che spesso erano state rese tali proprio dai coloni  ebrei) nonché l’accesso al Mar Rosso e al lago Tiberiade. La motivazione addotta dalla UNSCOP fu la previsione che vi sarebbe stata una consistente immigrazione di ebrei scampati allo sterminio nazista. Oltre a questo vi fu la volontà di radunare sotto il futuro stato ebraico tutte le zone dove i coloni erano presenti in numero significativo (seppure nella maggior parte dei casi etnia di minoranza) per scoraggiare possibili rappresaglie da parte della popolazione araba.

L’UNSCOP formulava anche proposte sul futuro economico dei due stati, come l’istituzione di una moneta comune e la costruzione di una rete di infrastrutture economiche condivise, tra cui un sistema  di irrigazione da realizzare con aiuti internazionali.

Il 29 Novembre 1947 l’Assemblea dell’ONU votò l’adozione del piano UNSCOP (risoluzione 181). Il piano fu accettato dalla leadership ebraica. Fu duramente criticato dai sionisti radicali e totalmente rifiutato dai leader arabi.
Seguì un’ondata di violenze e di scontri senza precedenti  tra le opposte fazioni, alla cui diffusione contribuirono certamente la campagna di propaganda bellicista orchestrata dal Gran Mufti di Gerusalemme e la precipitosa decisione del governo britannico di avviare il ritiro delle proprie truppe dalla regione.

Da notare che già un anno prima la Lega Araba, che si era fatta portavoce delle rivendicazioni nazionalistiche palestinesi, rivolgendosi alla Commissione d’inchiesta anglo-americana che vagliava la possibilità di uno stato ebraico in Palestina, aveva manifestato la netta contrarietà alle pretese sioniste e contemporaneamente  esortava  l’Egitto a prendere parte ad un eventuale conflitto contro lo Stato di Israele qualora fosse stato proclamato.
L’ atteggiamento di ostilità dei Paesi arabi nei confronti del nascente stato ebraico sarebbe sfociato, nel giro di pochi mesi, in una vera e propria guerra.

Il 14 maggio 1948, contestualmente al ritiro delle truppe britanniche dalla Palestina, l’Agenzia ebraica (Yishuv) proclamò lo Stato di Israele, sulla base del piano proposto dalle Nazioni Unite. Il giorno dopo (15 maggio) gli eserciti dei paesi vicini (Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq) insieme a corpi di spedizione minori provenienti da altri Paesi arabi, invasero il nuovo Stato, dando inizio alla prima guerra arabo-israeliana.

Dopo una prima fase durante la quale l’andamento della guerra appariva favorevole alle forze dell’Esercito arabo di liberazione di Fawzi al-Qawuqji e a quelle dell’Esercito del Sacro Jihad (Jaysh al-Jihād al-Muqaddas) di Abd al-Qadir al-Husayni, la comunità ebraica di Palestina (Yishuv) mostrò di possedere un’imprevista capacità bellica. Si riorganizzò, fondò un vero e proprio esercito (l’IDF, le Forze di Difesa Israeliane) nel quale confluirono varie organizzazioni militari come l’Haganah e l’Irgun) e pianificò tutta una serie di “operazioni” militari al cui successo contribuì non poco il grande coinvolgimento diretto della popolazione ebraica. Tutto ciò permise al nuovo Stato non solo di resistere agli eserciti dei Paesi arabi ma anche di contrattaccare e di annettere alcuni territori che il piano di partizione dell’ONU aveva assegnato allo Stato arabo (tranne la striscia di Gaza, occupata dall’esercito egiziano e la Cisgiordania occupata dalla Transgiordania).

Fu in questo contesto che, nel biennio 1947-48, si produsse un grande esodo di palestinesi, noto nel mondo arabo come al-Nakba (la catastrofe). Si calcola che circa 700.000 arabi palestinesi abbandonarono città e villaggi e cercarono rifugio nei Paesi vicini. Fu per libera scelta? Furono obbligati a fuggire? Furono espulsi?

La questione è così presentata nella enciclopedia online Wikipedia:” La proporzione fra i palestinesi che erano fuggiti o che furono cacciati, le cause e le responsabilità dell’esodo, il suo carattere accidentale o intenzionale, come pure il diniego, dopo la cessazione dei combattimenti, del diritto al ritorno degli abitanti arabo-palestinesi (musulmani e cristiani), sono un soggetto fortemente dibattuto sia da parte degli studiosi della questione israelo-palestinese, sia da parte degli storici specialisti degli eventi di tale periodo”.

Tra i fatti accertati, non molti in realtà, vi è l’ “Operazione Dani” con la quale l’IDF mirò a mettere in sicurezza e ad allargare il corridoio fra Gerusalemme e Tel Aviv, conquistando le cittadine di Lidda e di Ramie. I residenti di Lidda e Ramie, circa cinquantamila palestinesi, furono obbligati dagli israeliani ad abbandonare le città dando luogo a quello che sarebbe stato il più ampio esodo di popolazioni di tutto il conflitto.

Sul tema dell’esodo la polemica tra gli studiosi resta assai intensa fra chi privilegia le ragioni palestinesi e chi privilegia invece le ragioni ebraiche.

Gli storici palestinesi, nonché alcuni storici israeliani appartenenti alla corrente della cosiddetta “Nuova storiografia”, definita anche “post-sionista” (ovvero di studiosi delle origini di Israele che non si basano più solamente sulle narrazioni orali dei protagonisti ma su indagini documentarie) sostengono che l’esodo sia frutto di una azione pianificata dagli israeliani. Capofila di questa opinione è lo storico israeliano Ilan Pappé che parla addirittura di “pulizia etnica”.

In realtà non ci sono prove documentali a sostegno della tesi di una volontà determinata dell’Yishuv di espellere i palestinesi mentre c’è, inconfutabile, il fatto che la guerra non è stata voluta da Israele ma dagli arabi.
Pertanto appare più verosimile la tesi sostenuta da un altro importante storico, Benny Morris, anch’egli appartenente alla corrente della “nuova storiografia (della quale, negli anni 80, fu tra i fondatori) secondo cui l’esodo va considerato come un risultato praticamente “inevitabile” della guerra e non è possibile ricondurre il fenomeno ad una unica causa.

Intanto va detto che quasi tutti gli storici concordano sul fatto che i ragionamenti sull’esodo palestinese vanno riferiti ad almeno due ondate distinte: la prima da dicembre 1947 a marzo 1948, ovvero prima dello scoppio della guerra; la seconda dal marzo a giugno  1948 (c’è poi chi suddivide la seconda ondata in più fasi e chi invece accorpa tutto in una unica fase. Ma qui non entreremo in questi particolari).

La prima ondata, conseguente al caos e ai disordini scoppiati subito dopo l’adozione da parte dell’ONU del piano di partizione della Palestina, ha riguardato soprattutto i membri delle classi medie e alte che hanno lasciato volontariamente il paese. Circa 100.000 persone.
La seconda ondata, che ha riguardato circa 600.000 persone, è quella cui principalmente si fa riferimento quando si parla dell’esodo palestinese, della Nakba.

Benny Morris, che pure non ha remore ad ammettere che l’idea del “trasferimento” (cioè l’idea che uno Stato ebraico vitale non potesse vedere la luce e sopravvivere con una minoranza araba troppo consistente e che dunque fosse indispensabile un suo “trasferimento”) è presente nel pensiero sionista, sostiene che “la seconda ondata non fu il risultato di una politica generale, predeterminata, dell’Yishuv” e, sulla base dei materiali degli archivi militati israeliani, consultati direttamente, ha individuato un insieme di concause che a suo avviso hanno determinato l’esodo:
l’offensiva ebraica; lo sbriciolamento della società palestinese; il pessimo esempio dato dai leader politici arabi con la loro partenza all’arrivo dei combattimenti; un effetto valanga;il fattore atrocità (l’impatto del massacro di Deir Yassin (compiuto da un commando ebraico contravvenendo agli ordini superiori e da questi condannato) e la descrizione esagerata e martellante fatta dalle stazioni radio arabe; le espulsioni operate da alcuni capi militari operanti sul territorio (nonostante non vi fosse alcun ordine in tal senso impartito dall’Haganah); gli ordini di evacuazione, diramati in numerose occasioni dal Supremo Comitato Arabo e dagli Stati intervenuti in Palestina per mettere al riparo le popolazioni dai combattimenti.

Morris sottolinea poi un elemento fondamentale che avrebbe influenzato certe decisioni delle autorità ebraiche: la paura dell’Yishuv che i palestinesi e gli Stati arabi, se gliene fosse stata data l’occasione, avessero l’intenzione di riprodurre una versione dell’Olocausto a dimensione vicinoorientale (e quindi il sentore che l’invasione di metà maggio 1948 minacciava l’Yishuv di “estinzione”).

Ilan Pappé, così come fanno gli storici palestinesi, ritiene che sia inesatta l’affermazione di Morris circa il rischio di estinzione percepito dall’Yishuv. A suo parere l’Yishuv non ha mai dovuto confrontarsi con un concreto rischio di sterminio, poiché le organizzazioni paramilitari ebraiche come l’Haganah avevano una netta superiorità militare.

A noi sembra che, da parte di Pappé e degli storici palestinesi, la questione sia mal posta.

Il fatto che gli ebrei di Palestina, come viene detto, non abbiano mai dovuto confrontarsi con un concreto rischio di sterminio (grazie al fatto che la superiorità militare dell’Haganah ha funzionato da deterrenza) non porta a escludere che una volontà di sterminio fosse presente nella comunità araba, almeno a livello di leadership e, soprattutto, che fosse percepita dentro la comunità ebraica e perciò temuta. Testimonianze sulla presenza di una tale volontà se ne possono trovare e non poche, nonché su tentativi di una sua messa in atto (come abbiamo visto, ad esempio, occupandoci della personalità e del ruolo del Gran mufti di Gerusalemme).

Chiedersi con quali argomenti i leader arabi della Palestina e alcuni Paesi della Lega araba motivarono la loro decisione di aggredire lo Stato di Israele appena costituto (e in ottemperanza alle disposizioni delle Nazioni Unite) può essere utile per comprendere la determinazione e la durezza con le quali i leader ebraici reagirono all’aggressione.

I leader della Lega Araba reclamarono che le determinazioni dell’ONU non erano valide perché ad esse si opponeva la maggioranza degli arabi palestinesi, e sostennero che l’assenza di un’autorità legale rendeva necessario intervenire per proteggere le vite e le proprietà arabe.

È evidente che tali motivazioni erano prive di consistenza.

C’era legittimità nella proposta dei due stati e c’era la presenza di una autorità legale quale il governo mandatario. Tanto è vero che lo Stato di Israele fu rapidamente riconosciuto dall’Unione Sovietica, dagli Stati Uniti e dagli altri membri delle Nazioni Unite.
Gli USA e l’URSS definirono l’ingresso degli stati arabi in Palestina un’aggressione illegittima. Il segretario generale dell’ONU Trygve Lie lo definì come “la prima aggressione armata che il mondo abbia mai visto dalla fine della seconda guerra mondiale” (la Cina, invece, sostenne le rivendicazioni arabe).

I leader ebrei videro nella tempestività dell’aggressione e nel  grande dispiegamento di forze da parte del mondo arabo una volontà di soluzione finale e decisero di reagire con estrema durezza.

Un anno prima, quando aveva espresso la propria avversione all’idea di istituire i due stati, il segretario generale della Lega Araba, ʿAbd al-Raḥmān ʿAzzām, aveva  dichiarato che al “fratello ebreo” non poteva essere dato un cordiale benvenuto poiché questo “vecchio cugino” era andato in Occidente e ne tornava occidentalizzato, non più un orientale, con un diverso modo (occidentale) di vedere le cose, con idee imperialistiche (come se gli orientali fossero sempre stati immuni da idee imperialistiche, come se in Oriente non vi siano mai stati e non vi siano imperi, come se gli arabi stessi non abbiano mai costituito imperi. Ma questo, unitamente alla fascinazione per Hamas da parte dai teorici della decolonizzazione, è un altro discorso, che faremo più avanti).

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