L’incredibile vicenda brexit

Negli ultimi mesi il primo ministro inglese, la signora Theresa May, ha collezionato una lunga serie di sconfitte nella Camera dei Comuni in relazione alla gestione della vicenda brexit. In particolare non è in alcun modo riuscita a far approvare la proposta di accordo che lei ha pattuito con la Commissione Europea per una uscita ordinata  del Regno Unito dall’Unione.

In realtà tutta la vicenda brexit ha del paradossale ed oggi (14 marzo), alla notizia dell’ennesima bocciatura del piano proposto dalla May (bocciatura dovuta, è bene ricordarlo, al fatto che buona parte dei deputati Tory, cioè del suo partito, ha votato contro) sorgono spontanei alcuni interrogativi.

Perché la signora May ha dedicato e dedica tanto tempo ed energia nell’intento di portare il suo paese fuori dall’Europa (tenendo conto che nel 2016, al momento del referendum,  si era dichiarata contraria alla brexit) e, soprattutto, perché, non riuscendo a trovare una via di uscita non è tentata dall’idea di ascoltare la voce di quella parte del popolo inglese, tra l’altro sempre più numerosa, che chiede il ritorno alle urne per un secondo referendum?
Non c’è nulla da fare, la May non vuole sentire ragioni e, imperterrita, continua a far votare la Camera dei Comuni sulla sua proposta, a costo di accumulare sconfitte e umiliazioni.
Sembra che nessuno sia in grado di dare risposta a questi interrogativi.
Si dice che è tradizione, nella politica inglese, rispettare il parere degli elettori (i quali, appunto, hanno fatto la loro scelta nel referendum del 24 maggio 2016).
È una spiegazione convincente?
Non tanto. Considerando che nel referendum del 2016 gli inglesi si sono praticamente divisi a metà tra contrari e favorevoli, con un risicato margine di vantaggio di questi ultimi intorno all’un per cento. Inoltre quel referendum non era vincolante ma solo consultivo. E in più varie inchieste hanno messo in luce che durante la campagna elettorale non erano state fornite agli elettori informazioni sufficienti perché si potessero formare una opinione ragionata. Sta di fatto che non passa giorno che non ci sia gente per le strade di Londra che manifesta agitando le bandiere con le dodici stelle per chiedere al governo di fare marcia indietro.

Altra domanda. Se il governo non è in grado di (o non è interessato a) proporre il ritorno alle urne, perché questa proposta non viene fatta dall’opposizione (che nel 2016 aveva votato contro la Brexit ed aveva perso con un piccolo scarto di voti)?
In realtà anche l’opposizione non è in grado di prendere una decisione. Il capo dei laburisti, Jeremy Corbyn non ha mai manifestato grandi simpatie per l’Unione Europea (ma aveva comunque guidato il fronte no brexit nel 2016) ed ora, addirittura, è passato nel campo degli euroscettici.

Per cercare di capire come è stato possibile che gli inglesi si siano cacciati in una situazione così ingarbugliata  bisogna tornare alla primavera del 2016, quando il premier conservatore Cameron decise che il 24 maggio gli inglesi sarebbero stati chiamati ad esprimere il proprio parere sulla possibilità di un distacco del l’UK dall’Europa. Cameron non era per nulla convinto che brexit fosse una scelta giusta. Tutt’altro, anche perché aveva da poco concordato con Bruxelles migliori condizioni per la permanenza del suo paese nell’Unione. Tanto che da lì a poco inviterà a votare contro la brexit.
L’appuntamento referendario fu invece accolto con grande entusiasmo da Nigel Farage, il capo dell’UK Indipendence Party (UKIP) che ha visto nel Referendum la possibilità di realizzare il sogno di tutta una vità ovvero la totale indipendenza dall’Europa,  affinché il Regno Unito potesse essere” libero di siglare i propri accordi commerciali e i propri rapporti con il resto del mondo”.
Cameron considerava l’UKIP “un partito di matti, svitati e razzisti”. Un partito che, comunque, già due anni prima, alle elezioni europee, con un programma basato sulla chiusura delle frontiere all’immigrazione, aveva ottenuto più del 27% dei voti, e quindi rappresentava per Cameron un temibile concorrente. Nell’indire il Referendum, probabilmente Cameron ha puntato a contenere l’attrazione esercitata da Farage verso la parte più conservatrice del suo elettorato.

Farage si gettò anima e corpo nella battaglia pro brexit e lo fece raccontando un sacco di bugie. La più grossa e importante delle quali era che l’UK stesse subendo una “invasione” di immigrati favorita dagli orientamenti aperturisti e universalisti  presenti nella Commissione europea. Tutti i commentatori concordano sul fatto che la vittoria della brexit è stata soprattutto una vittoria di Nigel Farage.
Con l’esito referendario, pertanto, entra di prepotenza  nella scena politica inglese il populismo sovranista,  occupando spazi  lasciati disponibili, più o meno inavvertitamente, dai partiti tradizionali. Questi ultimi (come avviene un po’ ovunque) incontrano non poche difficoltà ad elaborare risposte nuove ai problemi che vengono posti dalle straordinarie trasformazioni in atto (globalizzazione, rivoluzione tecnologica, grandi migrazioni) . Da tale difficoltà deriva in buona parte lo stato confusionale nel quale mostrano di agire i partiti tradizionali, nel caso specifico sia i Tory guidati dalla May che i Labour guidati da Corbyn, il tutto alimentato dalla sciocca tentazione ( e anche questo vale per entrambi i partiti) di rincorrere le farneticazioni passatiste dei sovranisti invece che contrastarle.

L’errore principale compiuto da Theresa May è stato quello di non prendere il Referendum del 2016 per quello che in realtà era o doveva essere: una consultazione popolare alla quale (secondo la vera peculiarità del sistema politico britannico) bisognava far seguire un lungo, ragionato, approfondito dibattito parlamentare, che avrebbe consentito di analizzare tutte le modalità e tutte le conseguenze della realizzazione di una decisione così importante e complessa.
Invece è prevalsa una logica populista, quella logica che oggi ha la meglio un po’ ovunque. Ma nel Regno Unito c’erano tutte le premesse storiche perché ciò non avvenisse. Theresa May ha fatto la scelta di ignorare le ragioni profonde della “sua” democrazia rappresentativa. Il Parlamento è stato si spesso chiamato a decidere, ma per esprimere un si o un no alle scelte del capo del governo. Questo snatura le vere funzioni di un Parlamento e, come i fatti dimostrano, contribuisce a creare confusione.

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