Ma questo governo dura o non dura?

È probabile che durante le ferie natalizie, come ha scritto il direttore del quotidiano Il Foglio, chi ha passione e interesse per la politica, tra un panettone e un Mercante in fiera, si sia trovato spesso a porsi a tavola con gli amici “una domanda semplice a cui rispondere non è facile”. La domanda, dice Cerasa,  è grosso modo questa: ma questo governo dura o non dura?
È un punto interrogativo che troviamo (direttamente o indirettamente) tutti i giorni su tutti i giornali, da quando la manovra economica è stata definitivamente approvata  e quindi anche il secondo obiettivo per cui è nato il governo giallorosso (disinnescare l’aumento dell’Iva, che avrebbe gravemente compromesso la tenuta dei conti pubblici e l’andamento già critico del sistema economico) è stato raggiunto (il primo era bloccare la pretesa del sovranista Salvini di ritornare al voto, con la famosa richiesta agli elettori di attribuirgli i pieni poteri).

Propendiamo per l’idea che questo governo sia destinato a durare ancora un bel po’. Ma per dare sostegno a tale opinione è opportuno considerare alcuni elementi del contesto entro il quale oggi avvengono le scelte politiche.

Ci riferiamo, in particolare, ad una serie di fatti e circostanze che riguardano il processo di scomposizione/ricomposizione del quadro politico che ha preso l’avvio dopo i risultati delle elezioni 2018.

Nel campo della destra, questo processo ha portato alla quasi estinzione di FI e alla strepitosa ascesa dei sovranisti.
Berlusconi ha sempre detto di voler rappresentare l’anima moderata della destra italiana. Ma lo ha fatto senza contrastare in alcun modo la Lega di Salvini, a cui non ha mai seriamente rimproverato il modo aberrante di agitare il tema dell’immigrazione né le conseguenze nefaste che l’antieuropeismo produceva sulla nostra economia e sulla credibilità internazionale del Paese. La lega ha avuto gioco facile nell’attrarre a se gran parte dell’elettorato di Forza Italia. E tuttavia è bene ricordare che in questa legislatura  FI ha un numero di deputati e senatori piuttosto nutrito (più o meno come la Lega) e Berlusconi ha già fatto sapere che è interessato a pesare sulla elezione del prossimo capo dello stato (che è prevista per il 2022). Un motivo in più per pensare che, all’interno dello schieramento di destra, non sarà FI (che al suo interno ha anche una corrente anti sovranista) a spingere per una chiusura troppo anticipata della legislatura.
Salvini non ha solo fagocitato l’elettorato di FI. Nei 14 mesi in cui ha condiviso la vice presidenza del Consiglio con Di Maio ha anche fagocitato più della metà dell’elettorato del M5s.
 La capacità del leader della Lega di acquisire consensi è stata ed è straordinaria, specie se si considera che per il suo principale cavallo di battaglia (il contrasto all’immigrazione clandestina) i dati parlano di risultati modesti, pari se non inferiori a quelli realizzati dai ministri precedenti (ed anche dalla ministra Lamorgese attualmente in carica).
L’agonia di Forza Italia ha anche favorito una robusta crescita del partito più dichiaratamente nazionalista, ovvero Fratelli d’Italia guidato da Giorgia Meloni (già dirigente della formazione berlusconiana nel periodo in cui aveva assunto il nome di Popolo della Libertà). Meloni ha sempre sostenuto l’idea che Salvini dovesse abbandonare l’alleanza con Di Maio, chiedere il ritorno alle urna e puntare alla costituzione di “un vero governo sovranista”.
Grandi cambiamenti  in corso anche per l’altro partito populista.
Il M5s, che ama definirsi né di destra né di sinistra (infatti ha sempre attinto al repertorio delle proposte politiche sia della destra che della sinistra, anche se lo ha fatto mettendo spesso insieme cose tra loro poco conciliabili) è stato il vero vincitore delle elezioni politiche del 2018 pur non avendo alcun programma per il Paese. E poiché non si può governare senza idee (e senza competenze) nelle prove elettorali  (amministrative, regionali, europee) successive alla costituzione del governo gialloverde con Di Maio vice premier insieme a Salvini, ha perso per strada più della metà dei consensi che aveva immeritatamente ricevuto. È un partito, insomma, destinato all’estinzione. Le continue fuoriuscite e le faide interne ne sono una riprova.
Ciò detto, ci sono due considerazioni da fare: la prima riguarda le ultime defezioni  subite, alle quali i giornali hanno dedicato molto spazio: sono in realtà numericamente modeste e (trattandosi di esponenti radicali o dell’ala sovranista) hanno come risultato pratico quello di rafforzare all’interno del M5s la linea di Di Maio, favorevole alla prosecuzione dell’alleanza di governo.
La seconda considerazione è che comunque, al momento attuale, il M5s resta di gran lunga la principale forza politica presente in Parlamento. E con tutta probabilità la strategia del suo capo politico è quella di usare il peso parlamentare e la partecipazione al governo Conte 2 per far uscire il partito dalla crisi interna e magari fargli acquisire una fisionomia( in qualche modo diversa da quella attuale) che lo possa rendere  nuovamente presentabile a future competizioni elettorali. A questo scopo torna molto utile la benevola predisposizione dell’attuale gruppo dirigente del Pd.
Per quanto riguarda la sinistra tradizionale, ci sono tre cose da evidenziare:
la prima è che  il Pd, dopo la sconfitta alle elezioni politiche del 2018, non è riuscito ad innescare una vera e propria ripresa: è sempre fermo su una percentuale che oscilla tra il 17 e il 20%. Non ha saputo approfittare della crisi del M5s. Eppure era facile capire che il successo del M5s poggiava sul nulla e presto avrebbe imboccato la china discendente. Ma il Pd (o meglio il suo nuovo gruppo dirigente) non lo ha capito: ha detto, giustamente, che voleva parlare ad una parte dell’elettorato grillino, per ricondurlo al proprio ovile. Ha pensato che il modo migliore per farlo fosse rincorrere i grillini sul loro terreno di attacco all’establishment riformista che aveva guidato per circa 5 anni il partito (e il Paese). Quasi che la sconfitta elettorale fosse una liberazione prima che un problema cui porre rimedio. Ma imitare i grillini facendo l’opposizione al loro governo era una strategia sconclusionata, che lasciava il Pd nel guado, senza una direzione precisa. Zingaretti è stato anche tentato, non sapendo come rimettere il suo partito in carreggiata, dall’idea di un ritorno salvifico alle urne. Poi, nell’agosto scorso, dopo l’autogol di Salvini, ha capito anche lui che bisognava cambiare strategia.
La seconda cosa da evidenziare è che l’attuale gruppo dirigente del Pd ha interpretato l’accordo tecnico con il M5s per la formazione del Conte 2 (nato sulla base di una emergenza e su pochi specifici punti) come un accordo che dovrà tradursi in una intesa strategica tra i due partiti (qualche dirigente ha persino usato il termine “fusione”). A questo obiettivo i dirigenti del Pd, in particolare Franceschini e Zingaretti, credono molto. A loro avviso, dalla sua riuscita dipende, addirittura, la rinascita della sinistra in Italia. Ma è un processo che richiede cambiamenti non da poco; ad esempio richiederebbe la messa in discussione della maggior parte dei punti che avevano caratterizzato la presenza del M5s nel Conte 1, e che il Pd aveva sempre detto di avversare. E invece al momento il M5s, per paura di perdere la “propria identità” e quindi ancora altri elettori, continua a ribadire che non intende rinnegare nessuna delle sue  posizioni ideologiche. È insomma un processo che richiede tempi lunghi e che rischierebbe di essere compromesso se si dovesse tornare presto al voto.
La terza cosa è che all’inizio di settembre l’ex segretario del Pd Matteo Renzi, il cui intervento era stato determinante per la costituzione del governo Conte 2, ha lasciato il Pd ed ha dato vita ad una nuova formazione politica liberal riformista, denominata Italia Viva. Una formazione per ora accreditata intorno al 5%, che intende collocarsi al Centro e che rispetto al Pd intende fare (parole del suo fondatore) quello che in Francia Macron ha fatto ai socialisti. Probabilmente questo non avverrà (perché è vero che spesso la storia si ripete, ma quasi mai tale e quale). Mentre è possibile che la minaccia renziana induca sempre più Zingaretti a rafforzare il legame “strategico”con Di Maio. E ciò è fattore di maggiore stabilità per la coalizione di governo.
Renzi, per conto suo, pur mostrando di non voler svolgere una parte di secondo piano, ha più volte ribadito di non avere alcuna intenzione di mettere in discussione la durata del governo, almeno fino alla elezione del capo dello stato, prevista per il 2022 . Anche il suo progetto macroniano richiede tempi lunghi; il nuovo partito ha bisogno di crescere e organizzarsi. Le elezioni anticipate coglierebbero Italia Viva impreparata.

In estrema sintesi: nello scenario che abbiamo descritto ci sono più elementi che supportano l’ipotesi da noi formulata rispetto a quelli che la smentiscono.

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