Crescita e piena occupazione vs assistenzialismo

Dice Muhammad Yunus: “Capisco che con l’intelligenza artificiale che distrugge posti di lavoro si possa pensare di rispondere creando un reddito universale garantito. Ma io non credo che il destino dell’essere umano stia nell’essere mantenuto. L’essere umano è stato creato per coltivarsi, e il lavoro ne è lo strumento. Più gli uomini riescono a essere imprenditori, più riescono a creare ricchezza, e più la loro personalità cresce”.

Se non viene assunto in modo ideologico ma perseguito attraverso un programma che mette al centro gli investimenti produttivi, l’aumento dei consumi e, pertanto, la crescita economica del paese, l’obiettivo della piena occupazione è il naturale strumento di contrasto alla disuguaglianza e alla povertà. E’ l’obiettivo perseguito e in parte realizzato negli USA durante il mandato di Barac Obama. Tecnicamente questo obiettivo viene considerato raggiunto quando il tasso di disoccupazione è stabilizzato intorno al 3-4 % della forza lavoro totale.

Si tratta, per fare un esempio, di una impostazione totalmente diversa rispetto a quella adottata in Italia da Lega e M5s durante il primo governo Conte per contrastare (anzi, “abolire”, come dicevano loro) la povertà.

La misura pensata dai populisti nostrani di introdurre il reddito di cittadinanza non va criticata perché non c’erano i soldi per realizzarla (il che è senz’altro vero ed è una aggravante) ma perché è sbagliata e tale sarebbe risultata anche se ci fossero stati i soldi per finanziarla. L’assistenzialismo non ha mai aiutato a liberarsi dalla condizione di sottosviluppo.
Ha scritto Alessandro Barbano: “Sfidare il populismo significa intestarsi una battaglia per rilanciare l’economia italiana risanando insieme i suoi conti pubblici in una prospettiva di realismo e ridurre il divario economico e civile tra Nord e Sud”.
Per capire cosa significa, in termini di impatto sociale, rilanciare sul serio l’economia può essere utile considerare, appunto, quello che ha fatto Obama negli USA: all’indomani del suo insediamento alla guida del Paese lo stato ha messo tutto quello che poteva mettere (circa 800 miliardi) in investimenti per la reindustrializzazione e per porre in salvo il sistema del credito, per far ripartire alla grande una economia che era in piena recessione. In due anni gli Usa sono tornati ad essere il primo Paese industriale del pianeta. La disoccupazione è stata ridotta ai minimi termini (= piena occupazione). In quel periodo, i giovani americani non avevano paura di perdere il posto di lavoro, non perché sono state fatte leggi che introducevano più garanzie in questa direzione, ma perché se per qualche motivo uno perdeva il proprio posto di lavoro, o volutamente lo abbandonava, nel giro di pochi giorni ne trovava un altro.

È chiaro che non possiamo fare in Italia ciò che Obama ha fatto negli Stati Uniti, non fosse altro che per la dimensione del nostro debito pubblico. Ma se ciò che si riesce a racimolare lo si investe in assistenzialismo, la decrescita sarà assicurata ma non sarà felice. Questo agli italiani qualcuno lo deve spiegare. Il Governo del cambiamento (come si autodefiniva il Conte 1) era in realtà il Governo del non cambiamento. La proposta del reddito di cittadinanza ne è una prova. Questa proposta, soprattutto al Sud, aveva spostato milioni di voti a favore del M5s. Ma cosa c’era di nuovo, dove stava il cambiamento? Cosa è stato fatto, negli ultimi settanta anni, per il Sud, se non elargizione di assistenza (accompagnata da retoriche promesse di sviluppo economico)? E cosa è cambiato? Esattamente nulla. Il meridione ha continuato ad essere la parte meno sviluppata del Paese.

I meridionali, prima o poi, si renderanno conto di essere sempre stati vittime di impostazioni sbagliate? Può darsi, se ci saranno forze politiche che si impegneranno a farglielo capire. Non solo con le parole ma anche con i fatti: mettendo in programma il varo di un grande piano di investimenti pubblici e privati, coraggioso, con tutte le risorse che è possibile recuperare, come non è mai stato fatto. Perché quella che una volta si chiamava la questione meridionale è, ancora oggi, una delle questioni fondamentali per il futuro di questo Paese. Soprattutto se pensiamo ai giovani, visto che la disoccupazione giovanile ha nel Sud cifre da terzo mondo.
Certamente vanno migliorati gli attuali strumenti di sostegno al reddito. Ma la vera arma contro la diseguaglianza è il lavoro (copyright Pier Carlo Padoan).

Disoccupazione (e povertà) riguardano il Sud ma riguardano anche il resto del Paese. E l’aspetto più preoccupante, anche sul piano nazionale, è la dimensione della disoccupazione giovanile: nella fascia tra i 15 e i 24 anni il 26% non studia e non lavora e la disoccupazione media è intorno al 40%; nella fascia tra i 25 e i 34 anni il tasso di disoccupazione è intorno al 18%. La domanda che tutti si fanno è: quando questo paese riuscirà a garantire buone opportunità lavorative per i propri figli?

Un problema, quello del futuro delle giovani generazioni, che la crisi economica ha reso più evidente, e di cui si è tanto parlato e si parla, ma che non è mai giunto ad occupare il centro dell’attenzione e dell’azione politica. Un tema sul quale vi è una preoccupazione diffusa, e che delle forze politiche veramente orientate al cambiamento dovrebbero cogliere e inserire in un programma che proietti una visione ambiziosa del futuro del nostro paese.

Secondo il demografo ed economista Alessandro Rosina, per operare il cambiamento c’è bisogno di superare il vecchio modello di sviluppo (che, comunque, ha consentito in passato di accumulare benessere, ma) che a partire dalla metà degli anni 70 ha perso slancio, ha innovato poco, non si è adeguatamente predisposto ad affrontare i cambiamenti, si è adagiato su un trend di sviluppo stentato.
All’interno di una più generale prospettiva di cambiamento c’è poi bisogno di prendere seriamente in considerazione alcune particolari fragilità da sempre presenti nel nostro sistema economico e sociale, sulle quali Rosina ha richiamato l’attenzione: “Le nuove generazioni e le donne sono le componenti della popolazione che si trovano maggiormente sotto valorizzate in questo modello di sviluppo mancato, in questa Italia finita progressivamente fuori rotta. Tanto che a tutt’oggi presentiamo tassi di partecipazione femminile e giovanile tra i più bassi in Europa”.
Va aggiunto anche il fatto che il grande accumulo di ricchezza privata nel secondo dopoguerra è avvenuto su basi culturali fragili. Ancor oggi continuiamo a presentare una percentuale di popolazione attiva con titolo di studio terziario tra le più basse in Europa. I dati dell’indagine Ocse–Piaac ci dicono che l’Italia continua ad essere tra i paesi avanzati con più alta percentuale di persone carenti di competenze necessarie per la comprensione, l’interpretazione e la produzione di conoscenze indispensabili per interagire con successo con i processi di trasformazione e innovazione di questo secolo.
Questa fragilità non ha aiutato a decifrare i nuovi tempi, a ridefinire strumenti e reinterpretare funzioni, in una fase più matura e complessa del nostro percorso di crescita. La difficoltà di leggere e governare il cambiamento (globalizzazione, innovazione tecnologica,  immigrazione) ha fatto scivolare verso posizioni di chiusura sia chi sta bene ma si sente escluso dai benefici delle nuove opportunità, sia chi non sta bene ed è timoroso dell’impatto dei nuovi rischi. Così (ancora oggi) solo una minoranza della popolazione in Italia si trova ad essere convintamente alleata dei processi di apertura al nuovo
”.

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