Conoscenza competenza verità dei fatti vs ignoranza pregiudizio e fake news

La globalizzazione, le crisi economiche, le ondate migratorie, la rivoluzione tecnologica hanno creato e creano situazioni di grosso disagio nella nostra società. Alcuni partiti (es: Lega, M5s) si sono fatti interpreti e portavoce di questo disagio, inserendolo nella loro narrazione della realtà. Si è così creata tra rappresentati e rappresentanti una forte sintonia. Questa, più che una riflessione sulla bontà delle proposte concrete, ha convinto milioni di italiani a dare un grande consenso al modello di cultura politica proposta dai partiti populisti: un modello imbevuto di “antipolitica” (i politici e le istituzioni sono lontani dai bisogni della gente; l’establishment, le elite sono indifferenti ai veri problemi del popolo o, nel caso migliore, incapaci di affrontarli; le persone sono dimenticate dalla società ecc  ecc.) e di individualismo esasperato (che impedisce di ragionare in termini di interesse collettivo e porta a ragionare solo in termini di ciò che nell’immediato è percepito come il proprio tornaconto). Ed ha permesso ai populisti di guadagnare grande consenso anche in termini elettorali. L’aspetto paradossale, se guardiamo alla storia del decennio scorso, è che questo consenso è giunto proprio nel momento in cui le cose in realtà iniziavano ad andare meglio del solito, quando l’andamento dell’economia migliorava, i livelli di occupazione miglioravano, reati e scandali erano in costante diminuzione e perfino i flussi migratori erano ormai sotto controllo. Come mai questo paradosso?  I populisti hanno continuato a raccontare la realtà in termini catastrofici anche quando i fatti avrebbero consentito di essere un po’ più ottimisti affinché, per molta gente, la percezione della realtà risultasse più aderente ai convincimenti acquisiti nella propria precedente esperienza che alla realtà effettiva. È così che funzionano le menzogne ben congegnate, facendo leva sul meccanismo per cui in genere una persona è portata ad accettare (considerare vera) una informazione se la sua enciclopedia (cultura, esperienza) include quella informazione come possibile (In altri termini: se io posso dedurre una data conoscenza da ciò che già so sulla vita e sul mondo, quella conoscenza risulta per me automaticamente accettabile. Che sia vera o falsa è irrilevante, il messaggio che veicola per me è vero perché corrisponde alla mia esperienza).
Tutto ciò è stato espresso efficacemente da Giuliano Da Empoli nei seguenti termini: “Per i seguaci dei populisti non conta la veridicità dei singoli fatti, perché a essere vero è il messaggio d’insieme, che corrisponde alla loro esperienza. E di fronte a questo, servirà a poco accumulare i dati e le correzioni di dettaglio, se la visione dei partiti tradizionali continuerà a essere percepita come poco pertinente rispetto alla realtà”.
Ciò vuol dire che il modello opposto a quello dei populisti (ovvero la società aperta) è ormai definitivamente perdente? destinato a cedere definitivamente il passo al modello della società chiusa?
Niente affatto.
Ma per rilanciarlo è necessario che si faccia avanti una visione del futuro del nostro paese che, ispirata al modello di società aperta, sia in grado di entrare in sintonia con il comune sentire, in modo da essere percepita come adeguata. Del resto qualcosa di simile è già successo non molto tempo fa, nella stagione purtroppo breve delle riforme liberali (2014-17) che hanno ridato fiato all’economia e avviato un processo (che purtroppo non si è concluso) di rinnovamento istituzionale (come spiegare altrimenti  il 40 per cento dei consensi ottenuto dai riformisti? È stato solo per la simpatia che suscitava il loro leader?).
Ora naturalmente, per i riformisti, si tratta di lavorare per far emergere una  nuova strategia politica, che non sia e che non venga percepita come poco pertinente rispetto alla realtà.

Non è una operazione semplice, ma è la sfida da affrontare.

Quale che sia  la strategia politica che verrà adottata dalla sinistra riformista per riconquistare il governo del paese, si porrà comunque il problema della strategia comunicativa.

I riformisti non possono parlare il linguaggio della menzogna. La loro strategia comunicativa non può che fare perno sulla persuasione, che è per sua natura lontana tanto dalla eccessiva semplificazione come dall’uso delle fake news. Il contrario, insomma, della filosofia assunta dai populisti: “non importa se le cose che si dicono sono vere o false, intellettualmente oneste o no, realizzabili o meno, l’importante è dirle e, soprattutto, che gli altri ci credano” (slogan adottato in tempi non molto lontani dalla Casaleggio Associati).

I riformisti sono tali perché vogliono cambiare realmente le cose, vogliono fare in modo che la convivenza civile faccia passi avanti e ciò non può avvenire sulla base di falsità. Non basta che gli altri credano a ciò che si dice, bisogna che si facciano persuasi delle buone ragioni addotte. Bisogna pertanto ripristinare la dialettica e il dibattito pubblico come luogo della progettazione del futuro. Pretendere che i politici si confrontino, realmente, sulla base di fatti e di proposte che abbiano i piedi per terra, pubblicamente: non vi piace la nostra proposta? Bene, mostrateci la vostra!

Oltre a tutto ciò, vi è un altro importante elemento su cui riflettere.
Il problema delle FN e della comunicazione non può essere affrontato seriamente se non viene collegato al tema più generale della formazione degli italiani. E qui, in realtà, sono due gli aspetti da considerare.
In primo luogo, c’è la necessità di prendere atto che una parte consistente della popolazione adulta (15-65 anni) ha basi culturali fragili. Basta considerare che, ancora oggi, circa il 30% di chi è tra i 25 e 34 anni non ha un diploma di scuola secondaria. E non si può non riflettere sui dati dell’indagine Ocse-Piaac del 2013, che ci ha consegnato un quadro molto preoccupante circa le competenze linguistiche e matematiche degli italiani, con il 70% dei nostri connazionali che non possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi nella società contemporanea. Persino molti giovani (15-18 anni) non rientrano in quello che gli esperti chiamano “letteratismo”: il 51% legge ma non capisce quello che legge; in sostanza non ha gli strumenti fondamentali per comprendere il mondo in cui vive.
Infine, c’è da considerare che nel nostro sistema di istruzione manca uno specifico spazio dedicato alla educazione alla cittadinanza: dagli anni ’90 è scomparso dai curricoli scolastici l’insegnamento dell’educazione civica.
Il livello di incultura della popolazione adulta ha certamente un peso consistente sulla nostra vita associata, in quanto consegna una moltitudine di persone ad un ruolo di semplici fruitori passivi (privi cioè di sufficienti strumenti di giudizio e di controllo) dell’enorme flusso di comunicazione in cui si è quotidianamente immessi.
E c’è, infine, un problema di classe dirigente, il cui livello di cultura e di cultura politica in particolare si è andato via via abbassando.

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